Partito di Alternativa Comunista

Elezioni amministrative: un primo bilancio

Elezioni amministrative: un primo bilancio

 

 

 

di Alberto Madoglio

 

 

Il 3 e il 4 ottobre si è svolto il primo turno delle elezioni per il rinnovo dei consigli comunali e per i sindaci in oltre un migliaio di Comuni italiani. Ciò permette di fare un’analisi del quadro politico nazionale, pur sapendo che il turno di ballottaggio, previsto per il 17 e il 18 ottobre, potrà apportare delle modiche che però non mutano il quadro complessivo, nonostante in quella data verranno eletti i primi cittadini di Roma e Torino.

 

Vincitori e vinti

In premessa ricordiamo che per i marxisti le elezioni rappresentano uno specchio deformato della realtà politica. Ciò vale sia per le elezioni politiche, quelle cioè in cui si decide la composizione del parlamento borghese, dell’organismo cioè che in ultima istanza mette in pratica i desiderata della classe dominante (la borghesia), sia per le elezioni amministrative.
Il dato che balza immediatamente all’occhio, e che è stato riconosciuto di primaria importanza anche dai commentatori borghesi, è quello relativo alla bassa affluenza alle urne degli elettori. Hanno votato nazionalmente circa il 55% degli aventi diritto, percentuale che scende sotto il 50% nelle quattro maggiori città in cui si è votato: Roma, Milano, Napoli e Torino.
Questo fatto si presta a due considerazioni. La prima, che conferma un trend degli ultimi anni, riguarda appunto il calo dei votanti che dura da oltre un decennio, e che segna una profonda crisi di fiducia nel regime borghese e nei partiti che lo rappresentano.
Dall’altro, ed è il lato per così dire negativo della medaglia, è che questa sfiducia al momento si manifesta con una passivizzazione e con un profondo disinteresse per la politica, così come possiamo vedere dal, per il momento, basso livello di conflitto sociale, pur con importanti eccezioni come le mobilitazioni dei lavoratori Alitalia e Gkn, espressione al momento più avanzata della possibilità di un cambio di fase, nel senso di una ascesa del conflitto di classe. È in questo modo che oggi si manifestano la sfiducia e l’opposizione sempre più crescenti verso la politica e il regime delle classi dominanti in Italia.

 

Gli schieramenti borghesi

Fatta questa premessa, doverosa da parte nostra anche perché dovrebbe smorzare i facili entusiasmi di chi, nei due schieramenti borghesi di centrodestra e centrosinistra, vede nel risultato elettorale una conferma da parte del «popolo» della propria azione, cerchiamo di capire più nel dettaglio come i due schieramenti escono da questa prova elettorale.
Il centrosinistra, guidato dal Partito Democratico, è lo schieramento che ha ottenuto i risultati migliori in termini percentuali, anche se ha subito un calo nei voti assoluti, soprattutto per aver conquistato già al primo turno tre importanti città come Milano, Bologna e Napoli, con buone possibilità di successo al ballottaggio nella capitale politica, Roma, e in quella che per un secolo è stata la capitale industriale, Torino.
Inoltre essere riuscito se non a invertire quanto meno a fermare il trend di calo dei consensi, per il partito di Letta è un risultato da non disprezzare.
Nel centrodestra si è avuta conferma di quanto molteplici sondaggi preventivavano, cioè il fatto che il partito di Salvini, la Lega, avrebbe pagato pegno alla scelta governista di sostegno all’esecutivo guidato da Mario Draghi. Un partito che negli anni ha propagandato l’immagine di sé come forza anti-sistema, con una forte base elettorale prevalentemente tra piccola e media borghesia, non poteva non risentire della decisione di entrare a far parte di una compagine governativa che rappresenta in maniera plastica gli interessi delle grandi famiglie della borghesia imperialista italiana, e che applica politiche con le quali, in maniera solo demagogica, aveva negli anni polemizzato. Né il goffo tentativo di presentarsi come forza di «lotta» e di governo poteva evitare questo scenario.
Nello schieramento conservatore, al momento, Fratelli d’Italia rappresenta la forza maggioritaria, anche se il suo successo è inferiore a quanto lo si voglia rappresentare. Essere una forza di opposizione più nella forma che nella sostanza, le ha impedito, almeno per il momento, di catalizzare attorno a sé quel malcontento generalizzato che, come dicevamo, si è indirizzato verso l’astensione.

Due appaiono i veri sconfitti del 3 e del 4 ottobre.

 

Movimento cinque stelle: fine di un’illusione

Il primo è senza dubbio il Movimento 5 Stelle, passato da oltre il 30% delle politiche del 2018 a circa il 10% dello scorso week end elettorale. Le precisazioni relative al fatto che non si possano paragonare due elezioni differenti, e che a livello locale il Movimento sconta una storica debolezza nel formare una classe dirigente adeguata, possono convincere solo gli osservatori più superficiali.
In verità un Movimento nato sull’onda della protesta e del rifiuto demagogico della politica tradizionale, che avrebbe fatto la «rivoluzione» della politica, senza fare la rivoluzione, si è scontrato con l’impossibilità non solo di mutare, ma anche solamente di riformare la politica e l’economia, non mettendo in discussione il predominio del mercato e del capitalismo.
Tre anni di governo in un’epoca di profonda crisi economica come quella che stiamo vivendo, non potevano che dare questi frutti, e se Grillo, Di Maio, Conte e l’intero Movimento pensavano di sfuggire al destino che prima di loro ha travolto Podemos nello Stato Spagnolo e Syriza in Grecia, erano degli illusi o peggio degli sprovveduti.
Riguardo la classe dirigente locale, il fatto che il M5s non sia arrivato ai ballottaggi nelle due città che cinque anni fa avevano dato inizio alla sua impetuosa ascesa, è la prova che il problema centrale non è di gruppi dirigenti (anche se in questi anni i 5s si sono dimostrati campioni di sciatteria, qualunquismo, incapacità e arrivismo senza scrupoli, tanto da farli apparire uguali agli avversari che avevano sempre criticato), ma dell’impossibilità di governare un’economia di mercato, specie in un’epoca di profonda crisi come l’attuale, nell’interesse della maggior parte della popolazione.
Probabile che a breve del partito di Grillo ci si ricorderà come di una meteora che tutto voleva cambiare affinché nulla cambiasse («cambiare tutto per non cambiare niente», Gattopardo, Tomasi di Lampedusa).

 

La crisi senza fine del riformismo (e del centrismo) italiano

Gli altri sconfitti di questa tornata sono le varie organizzazioni riformiste (e centriste), che in vario modo e sotto differenti sigle, si sono presentate alle elezioni. Rifondazione, Potere al Popolo, Pc di Rizzo, hanno mostrato tutta la loro inconsistenza. Subordinare l’intervento nelle lotte e nelle mobilitazioni alla propaganda elettorale non garantisce nessun successo, e in questo caso conferma come il riformismo (con le sue code centriste) sia ben lungi dall’essersi ripreso dal disastro causato dal sostegno a un governo borghese come quello di Prodi dal 2006 al 2008.
A differenza di quanto sostengono forze che abusano della qualifica di trotskiste, il problema principale del riformismo non è quello di non aver per certi versi tradito o non soddisfatto le aspettative create tra i loro sostenitori, ma di aver fatto confluire la rabbia e la disperazione degli sfruttati nel solco della governabilità borghese.

 

La lotta di classe determinerà il futuro corso degli eventi

A prima vista Draghi e il suo esecutivo escono rafforzati dalle elezioni, che pur essendo formalmente di carattere locale, racchiudevano una evidente valenza politica. Ma è una stabilità costruita sulla sabbia, così come il basso numero di votanti per certi versi dimostra.
Saranno i mesi successivi che ci diranno che piega prenderà la situazione. Se la crisi economica dovesse tornare a colpire (come alcuni ultimi eventi lasciano intravvedere, tra tutti la ripresa dell’inflazione) allora il fuoco che cova sotto la cenere dell’apparente stabilità politica, farà divampare il conflitto sociale e allora si vedrà con più chiarezza quale è la posta in gioco: non un sindaco o un presidente del consiglio, ma quale classe sociale manterrà o prenderà le redini del potere.
Noi siamo convinti che l’emancipazione delle classi sfruttate non avverrà in un consiglio comunale o in parlamento, ma nella lotta per la costruzione di un’altra economia, di una società in cui la classe operaia si doti dei propri organismi di potere, soli strumenti per una vera e piena democrazia al servizio della stragrande maggioranza della popolazione.

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