La situazione politica in Italia
IL PROGRAMMA DEI RIVOLUZIONARI
NEL NUOVO CICLO DI LOTTE
La crisi capitalistica mondiale investe il nostro Paese e acutizza il conflitto di classe
La crisi capitalistica anche nel
nostro Paese si sta allargando e aggravando. Oggi, la vera natura del capitalismo è sotto gli occhi di
tutti: per arginare la caduta del tasso di profitto e far pagare la crisi ai
lavoratori, il capitale non esita a chiudere aziende; a ricorrere a
licenziamenti di massa e all'ulteriore precarizzazione dei rapporti di lavoro;
a trasferire la produzione in Paesi in cui la forza lavoro costa meno; ad
attaccare in modo diretto - con politiche razziste, espulsioni, respingimenti,
ecc - gli strati più sfruttati della classe operaia, cioè gli immigrati
(divenuti capro espiatorio della crisi del sistema). Il capitalismo in
putrefazione determina la distruzione delle forze produttive, con conseguenze
catastrofiche soprattutto sulle nuove generazioni, condannate alla miseria e
alla disoccupazione. Non è da escludersi che i magnati della grande industria e
della finanza, memori degli insegnamenti del secolo scorso, per conservare il
proprio predominio e salvaguardare i profitti, alimentino una deriva
guerrafondaia che potrebbe condurre anche a una nuova stagione di conflitti
interimperialistici.
La crisi in Italia coinvolge migliaia di imprese
dell'industria, dell'edilizia, dell'artigianato, del commercio, del turismo,
dei servizi. La grande impresa attraversa una fase di ulteriore concentrazione
e centralizzazione del capitale con conseguenti chiusure di stabilimenti. La Fiat, mentre riceve
finanziamenti dalle banche (Intesa San Paolo, Unicredit) e stabilisce accordi e
fusioni internazionali (Chrysler), annuncia la chiusura di stabilimenti
(Pomigliano, Termini Imerese) e migliaia di licenziamenti, spostando gran parte
dell'intero suo asse produttivo al di là dell'oceano, negli Stati Uniti,
approfittando di finanziamenti del Tesoro statunitense e negoziando con il
sindacato aziendale (sindacato che, in combutta col padronato, entrerà nel
consiglio di amministrazione della nuova società) la violenta compressione dei
diritti dei lavoratori già assunti e da assumere (drastica riduzione dei
salari, divieto di sciopero, ecc).
Similmente, gli altri settori della grande industria (non
solo meccanica, ma anche manifatturiera, delle telecomunicazioni ecc) e le
piccole e medie imprese subiscono la stessa sorte.
I lavoratori immigrati oltre al lavoro perdono anche il
permesso di soggiorno, ritrovandosi nella condizione di clandestinità. I
lavoratori precari sono i primi a fare le spese della chiusura degli
stabilimenti: sono centinaia di migliaia i contratti di lavoro a tempo
determinato che non sono stati rinnovati.
Nel 2009 la cassa integrazione ordinaria ha coinvolto milioni
di lavoratori. Un numero sempre maggiore di aziende ricorre alla cassa
integrazione straordinaria, precorritrice della mobilità e dei licenziamenti. La
stessa cassa integrazione ordinaria, come dimostra la lotta dell'Alcoa, è
percepita dai lavoratori come il primo segnale di un'accelerazione sul terreno
dei licenziamenti. La disoccupazione nel 2009 ha superato il 9% su
base nazionale (e si tratta di cifre ufficiali, quindi sottostimate). La
pesante crisi e la necessità padronale di un attacco senza precedenti ai
lavoratori per recuperare il saggio di profitto alimentano il conflitto sociale
e rilanciano in tutta Europa una nuova stagione di lotte operaie.
Le politiche del governo Berlusconi ricadono sui lavoratori
Il governo Berlusconi ha potuto vincere grazie alla crisi
del centrosinistra borghese sostenuto dalla cosiddetta sinistra radicale.
Quest'ultima, con una politica opportunista di compromesso di classe tradottasi
anche nel sostegno alla guerra imperialista e alle politiche economiche padronali,
ha subito la sconfitta del suo progetto con la conseguente scomparsa dal
Parlamento. In questo modo ha determinato un ulteriore indebolimento della
classe lavoratrice, indebolimento a cui hanno contribuito i sindacati
concertativi, e che ha favorito la propaganda del centrodestra. Il governo
Berlusconi, attento sul piano sociale a soddisfare istanze costruite ad arte,
come il bisogno di sicurezza e di ordine (con i conseguenti numerosi episodi di
violenza razzista e i fenomeni, sempre più diffusi, di discriminazione razziale,
terreno fertile per la propaganda della Lega Nord ma, in alcune città, anche di
gruppi di stampo neofascista) sta mostrando un volto "decisionista" e
reazionario, mentre sul piano istituzionale tende a rafforzare la figura del
premier e a esautorare finanche le istituzioni rappresentative democratico‑borghesi.
I contrasti all'interno della maggioranza di governo (Fini da una parte,
Berlusconi dall'altra) non rappresentano altro che i conflitti interni alla
grande borghesia italiana, i cui settori maggioritari non si sentono pienamente
tutelati dal premier Berlusconi e preferirebbero un asse di governo allargato,
da Fini, Casini e Bersani, se necessario fino all'Italia dei valori (che si
ritaglia un ruolo di opposizione demagogica lucrando sulla oggettiva debolezza del
PD ma sostenendo nei fatti politiche antioperaie e un programma economico
liberista) e col sostegno esterno della neonata Federazione della sinistra
(Ferrero, Diliberto, ecc). Agli occhi del padronato italiano un fronte di
governo di questo tipo rappresenterebbe, in un momento di potenziale acuirsi
del conflitto sociale, sia un temporaneo calmiere delle lotte, sia un governo
più svincolato dagli interessi capitalistici personali del premier-imprenditore
(le polemiche estive sulle escort e le abitudini sessuali del premier vanno
lette in quest'ottica).
Di fatto il governo nella sostanza opera su un terreno già
tracciato dal governo Prodi ‑ non a caso i programmi elettorali dei due
schieramenti erano molto simili ‑ a dimostrazione che la grande borghesia richiede
ai governi di centrodestra e di centrosinistra sostanzialmente le stesse
ricette. Il governo Berlusconi ha elaborato una manovra finanziaria triennale
che prevede 30-35 miliardi di tagli: sono in atto tagli alla scuola e
all'università, alla sanità e al pubblico impiego (blocco del turn over,
ricorso alla mobilità, sospensione delle stabilizzazioni e disoccupazione per i
precari); i rinnovi dei contratti pubblici sono stati congelati e, con il
decreto Brunetta, si introduce la possibilità di licenziare, a discrezione dei
dirigenti, anche nel pubblico impiego; è stato elaborato un piano per lo
"sviluppo" con nuove privatizzazioni, nuove liberalizzazioni (servizi pubblici
locali) e l'introduzione del nucleare. Anche le politiche sociali sono basate
essenzialmente sul taglio dei costi. La sanità sarà delegata ulteriormente alle
regioni con il federalismo fiscale: gli ospedali verranno definitivamente trasformati
in s.p.a. o in fondazioni, accelerando i processi di privatizzazione. Si
avranno tagli per 7 miliardi per il fondo sanitario delle regioni 2010-2011, di
250 milioni di euro per il fondo sociale, un taglio di 550 milioni di euro per
il piano casa e di 350 milioni di euro per i trasporti.
L'altra faccia dei tagli alla spesa in nome della
"stabilizzazione della finanza pubblica" è rappresentata dalla
politica di "incentivi allo sviluppo e alla crescita dell'economia". La
borghesia italiana, così come ha sostenuto lo scorso governo di centrosinistra,
ottenendo peraltro notevoli vantaggi attraverso la detassazione delle imprese e
la concertazione, oggi detta l'agenda al governo di centrodestra (il quale ove
serve non esita, per mano di Tremonti, a risanare le casse dello Stato con
provvedimenti non particolarmente graditi alla grande borghesia nostrana - in
quanto forieri di ulteriore competizione intercapitalistica - come lo scudo
fiscale): aumento dell'età pensionabile; massima flessibilità del mercato del
lavoro attraverso licenziamenti, precarietà; sostituzione della contrattazione
nazionale con quella individuale e aziendale; detassazione a vantaggio
dell'imprese; aiuti alle banche; nuove rottamazioni dei settori auto ed
elettrodomestici; creazione di nuovi spazi di mercato attraverso la
privatizzazione dei servizi, le grandi infrastrutture e rilancio del nucleare;
incentivi per gli obblighi delle industrie sulle emissioni di CO2; svendita di
Alitalia sulla pelle dei lavoratori. In questo solco si colloca l'accordo
quadro sul nuovo modello contrattuale firmato il 22 gennaio 2009 (e ratificato
il 15 aprile) dal governo, dalle associazioni padronali e da Cisl, Uil, Ugl, Confsal,
Cisal, Sinpa.
Di fronte allo scontro di classe che, con l'inasprimento
della crisi, è destinato a crescere, padroni e governo hanno la necessità di mettere
in discussione lo stesso diritto di sciopero (ddl Sacconi). Sacconi ed il
governo hanno spiegato che il ddl riguarda solo il settore dei trasporti ma non
è che l'inizio e questa norma vieta da subito tutte le forme di conflitto che
si esprimano con il "blocco fisico" di siti, strade, aeroporti, ecc.
Con misure come il referendum preventivo per le organizzazioni che sono al di
sotto del 50% di rappresentatività, la dichiarazione preventiva di adesione
allo sciopero, lo sciopero virtuale, l'allungamento degli intervalli tra uno
sciopero e l'altro, le sanzioni per le violazioni delle regole, sarà
impossibile scioperare, con una regressione rispetto alle limitazioni già
presenti. Se associato al divieto di manifestare nel fine settimana e all'annunciato
inasprimento delle sanzioni (prendendo a pretesto la farsesca
"aggressione" al premier a Milano) relative alle "azioni di
disturbo di manifestazioni politiche e sindacali", è evidente che siamo di
fronte al tentativo da parte padronale di reprimere preventivamente le lotte
operaie. Per questo, la classe operaia deve respingere da subito, con una lotta
ad oltranza, i licenziamenti e l'attacco padronale, fino a ribaltare i rapporti
di forza. Il procrastinare il conflitto favorendo la lenta e progressiva
espulsione della classe operaia dai luoghi di lavoro - ciò che stanno facendo
le burocrazie dei sindacati concertativi, quelle della Fiom incluse - significa
togliere agli operai stessi le loro uniche armi di difesa: gli scioperi, i
picchetti, le occupazioni, le azioni di massa prolungate.
L'azione del padronato e della burocrazia sindacale
L'accordo quadro firmato dal governo, dalle associazioni
padronali e dai sindacati organici al governo delle destre (Cisl, Uil, Ugl,
Confsal, Cisal, Sinpa) chiude la fase concertativa aperta il 23 luglio 1993, che
ha fatto precipitare i salari italiani al livello più basso in Europa (e che ha
visto come protagonista anche la stessa burocrazia Cgil, che oggi mima
un'opposizione di facciata) e ne apre un'altra, che mira a distruggere la stessa
contrattazione collettiva e il contratto nazionale (portato delle lotte operaie
degli anni Sessanta e Settanta) sia nel settore pubblico che nel settore
privato. A questo accordo si è arrivati dopo un anno di accordi separati da parte
di Cisl, Uil e Ugl. Il testo dell'accordo si apre e si chiude con la richiesta
di maggiore produttività ai lavoratori, meno diritti e meno salario. La
gestione degli ammortizzatori è affidata agli enti bilaterali, garantendo per
questa via la burocrazia sindacale complice del governo e del padronato. La
durata dei contratti è ulteriormente estesa, tanto per la parte economica che
per quella normativa.
Allo stesso tempo, la Cgil - che pure è stata esclusa dal tavolo della
concertazione ed è stata costretta a collocarsi in una posizione di
pseudo-opposizione - ha risposto all'attacco padronale con una riduzione delle
mobilitazioni. E quando ha chiamato alla lotta lo ha fatto con la solita
routine di scioperi puramente dimostrativi, mai protratti al di là di una o
mezza giornata di astensione dal lavoro, senza mai dichiarare la volontà
irrinunciabile a non sospendere la lotta fino al conseguimento di un qualche
obiettivo, sia pur minimo, con mobilitazioni di piazza spesso ipocrite o
farsesche. Scioperi vuoti di contenuti e di radicalità, che pesano sulle tasche
dei lavoratori ma non hanno finora portato ad alcun risultato concreto. Questo
metodo di lotta crea alla lunga frustrazione e stanchezza nel mondo del lavoro
e viene utilizzato dalla direzione Cgil solo in funzione di riconquistare un
ruolo egemone al tavolo della concertazione, oggi scalzato da Cisl e Uil.
L'opposizione della Cgil al nuovo modello contrattuale non risulta credibile:
continua a sostenere la subordinazione del salario alla produttività e alla
redditività dell'impresa oltre che la triennalizzazione dei contratti, voluta
da governo e Confindustria. Di fatto, la Cgil si limita a non rivendicare, formalmente,
l'accordo, recependolo poi nella sostanza, così come è avvenuto e sta avvenendo
per alcuni contratti firmati negli ultimi tempi (alimentaristi, chimici,
telecomunicazioni).
A questo, bisogna aggiungere il ruolo svolto dalle direzioni
burocratiche della Cgil - incluse quelle della Fiom - nelle lotte operaie che
stanno sorgendo in questi mesi. Come sempre nella storia, quando la lotta di
classe tende ad acutizzarsi, gli apparati dirigenti dei sindacati mirano a
controllare le masse lavoratrici al fine di disarmarle. Questo è già evidente
nelle prime lotte che stanno sorgendo in questi mesi, sulla spinta della crisi
capitalistica. La generosa disponibilità alla lotta, dimostrata dagli operai di
tante fabbriche, viene sistematicamente tradita dai dirigenti (e spesso dagli
stessi delegati) della Fiom, che smobilitano le lotte in cambio di accordi al
ribasso (accordi che prevedono cassa integrazione straordinaria, mobilità,
esuberi con licenziamenti di massa, come nel caso della Tenaris a Dalmine).
Oggi più che mai è evidente che non solo le burocrazie di Fim e Uilm, ma
parimenti quelle della Fiom risultano sempre più un tappo all'esplosione di
lotte operaie radicali e su larga scala. Rispondendo alla domanda di un
giornalista che le chiedeva se temesse esplosioni di tensioni sociali come in
Francia e Inghilterra, il presidente di Confindustria Marcegaglia ha così
risposto: "la cassa integrazione si è rivelata utilissima (...) è giusto
dare atto del senso di responsabilità con cui le aziende e a livello locale i
sindacati hanno gestito la crisi. (...) La Cgil e la
Fiom si stanno comportando bene, pure nelle zone considerate
più calde: da Brescia a Reggio Emilia" (La
Repubblica, 27/04/2009).
La logica che sta alla base del ricorso massiccio alla cassa
integrazione (cassa integrazione ordinaria e straordinaria) è evidente,
soprattutto ai padroni: preservare gli utili degli azionisti scaricando le
spese sulla collettività, cioè ancora una volta sui lavoratori. Allo stesso
tempo la cassa integrazione allontana i lavoratori dalle fabbriche, li isola,
spezza quei legami minimi di solidarietà che si creano sui luoghi di lavoro e
che servono per organizzare le lotte - si sta rivelando una manna dal cielo per
i padroni. E' per questo che il decreto di Tremonti (estate 2009) potenzia
questo strumento, insieme ai cosiddetti "contratti di solidarietà"
(che liberano le aziende anche dall'onere di pagare ad ogni operaio il suo
misero intero salario): 40 milioni di euro vengono stanziati per l'integrazione
salariale per i contratti di solidarietà, 25 milioni per il rifinanziamento
delle proroghe a 24 mesi della cassa integrazione straordinaria per cessata
attività. Si tratta di provvedimenti che tradiscono le reali preoccupazioni di
governo e padronato: il rischio di una crescita delle lotte è reale e quello
che sta succedendo negli altri Paesi europei, dalla Francia all'Inghilterra
alla Grecia, non fa dormire sonni tranquilli ai capitalisti e ai loro portavoce.
Le occupazioni delle fabbriche cominciano a diventare un pericoloso spettro che
s'aggira per l'Europa.
L'intervento sindacale del PdAC: la battaglia per il sindacato di classe
Ovviamente nessun sindacato, nemmeno un sindacato (e non
esiste oggi in Italia) che si ponga esplicitamente il compito di abbattere il
capitalismo, può sostituire il partito. Il modo stesso in cui avviene
l'adesione a un sindacato - senza distinzioni tra attivisti e non attivisti,
senza adesione a un programma - implica l'impossibilità che un sindacato si
doti di un programma rivoluzionario compiuto. Inoltre, i sindacati raggruppano
necessariamente una piccola parte della classe lavoratrice: gli strati più
oppressi (e maggioritari) vengono trascinati nella lotta nei momenti di
eccezionale risveglio. In questi casi sorgono organizzazioni che vanno oltre i
sindacati: comitati di lotta, comitati di sciopero, comitati di fabbrica, ecc.
In questi frangenti, i rivoluzionari devono sempre battersi per la costruzione
di organizzazioni militanti indipendenti anche dagli stessi sindacati.
Ciò non toglie che è dovere di ogni comunista intervenire
nei sindacati. Anzi, come spiega bene Trotsky nello scritto sui sindacati nell'epoca
dell'imperialismo, oggi "l'intervento nei sindacati (...) diventa in un
certo senso più importante che mai per un partito rivoluzionario (...) la posta
in gioco è la lotta per l'influenza sulla classe operaia". Del resto la necessità
che i rivoluzionari intervengano nei sindacati - finanche nei sindacati
reazionari, era già stata posta ed elaborata da Lenin e ribadita
dall'Internazionale comunista delle origini - con lo scopo di sottrarre ampi
settori all'influenza delle burocrazie dirigenti.
E' a partire da questo patrimonio teorico, tattico e
programmatico che il Partito di Alternativa Comunista - consapevole delle
proprie poche, ma compatte, forze - ha elaborato e applicato una tattica di
intervento sindacale che vede impegnati attivisti del Partito sia nella Cgil,
sia nel cosiddetto sindacalismo di base (RdB, Conf. Cobas, SdL, Cub, Slai
Cobas). Più in particolare, nella Cgil gli attivisti del PdAC sono collocati
nella Rete 28 aprile (la componente di sinistra in Cgil, che al prossimo
congresso sostiene un documento contrapposto a quello di Epifani facendo blocco
con categorie come la Fiom,
la Funzione
pubblica, la Fisac
bancari). In questa collocazione, la nostra battaglia si è fin dall'inizio
articolata nella prospettiva della costruzione di un sindacato di classe,
contro la linea concertativa e di collaborazione di classe della maggioranza,
ma anche per una svolta nella Rete 28 aprile stessa in termini programmatici e
organizzativi. I punti essenziali a cui si è da sempre ispirata la battaglia
degli attivisti del PdAC in Cgil sono riassunti in un documento elaborato come
contributo al dibattito congressuale nella Rete 28 Aprile dai nostri compagni
insieme ad altri attivisti della Rete e diffuso lo scorso agosto in occasione
di un incontro nazionale della Rete. Oggi quest'area è l'unica che, in vista
del congresso nazionale della Cgil, ha proposto nella Rete 28 aprile una piattaforma
antiburocratica e rivendicativa alternativa a quella proposta dal seconda
documento che, sebbene alternativo a quello della maggioranza di Epifani, mantiene
tutti i limiti di un'impostazione sindacale concertativa e annulla in
prospettiva l'esistenza di qualsiasi opposizione interna alla Cgil.
Per quanto riguarda il sindacalismo di base, i militanti del
nostro Partito sono stati fino ad oggi attivi in particolare (ma non
esclusivamente) nella Confederazione Cub (la principale confederazione a
sinistra della Cgil, di cui la parte maggioritaria è organizzata nel pubblico
impiego come RdB-Cub). La
Confederazione Cub ha conosciuto di recente un processo di
scomposizione che ha portato a una frattura: la parte maggioritaria della
Confederazione ha deciso di intraprendere un processo di unificazione con altri
settori del sindacalismo di base (SdL anzitutto, ma anche Orsa e settori della
Cub, in stretta interlocuzione con lo Slai Cobas), mentre una parte, minoritaria,
è rimasta al di fuori da questo progetto. L'intervento degli attivisti di
Alternativa Comunista si è caratterizzato per una battaglia per l'unificazione
del sindacalismo di base, per la costruzione del sindacato di classe sulla base
di una piattaforma rivendicativa anticapitalista, per la democrazia interna. In
particolare, nella decisione di partecipare alla costituente del nuovo
sindacato che nascerà dalla fusione tra i settori maggioritari della Cub e SdL,
i nostri militanti hanno sottoscritto e condiviso un contributo diffuso da
attivisti Cub di diverse categorie in occasione dell'assemblea nazionale costituente
dello scorso maggio. Il documento ruota attorno ai seguenti assi: unità di
tutto il sindacato di base, necessità di partecipare agli scioperi
potenzialmente conflittuali indetti dai sindacati concertativi, necessità della
battaglia per il sindacato di classe.
Il nostro impegno per la costruzione di un sindacato di
classe e di massa nel nostro Paese continuerà, nella convinzione che sia
necessario realizzare il coordinamento e l'unità d'azione del sindacalismo di
base e dei settori classisti in Cgil. Oggi più che mai - di fronte agli attacchi
sempre più pesanti del padronato, di fronte al licenziamento di milioni di
lavoratori, di fronte all'inasprimento delle misure repressive nei confronti
della classe lavoratrice - occorre battersi per sottrarre i lavoratori dal peso
delle burocrazie dei sindacati concertativi e dal settarismo spesso presente
nel sindacalismo di base, premesse per la costruzione di un sindacato che sia
espressione della contrapposizione delle masse lavoratrici contro il capitale
(cioè basato sull'indipendenza di classe dalla borghesia, dal suo Stato, dai
suoi governi); che faccia della lotta ad oltranza lo strumento privilegiato del
suo operare; che miri al rovesciamento degli attuali rapporti di forza, a
partire dalla difesa degli interessi della classe lavoratrice. A questo scopo,
fin da subito occorre sostenere e coordinare le lotte operaie in corso.
Lo sviluppo delle lotte operaie: una campagna per l'occupazione delle fabbriche, per i comitati di lotta, per l'autodifesa dei lavoratori
Le esperienze più avanzate di conflitto di classe - dalla
Francia alla Grecia (dove, oltre alle violenze di piazza, gli scioperi
prolungati sono all'ordine del giorno) - rappresentano un serio avvertimento
agli occhi dei capitalisti. Nonostante lo sforzo della propaganda padronale di occultare
i fenomeni, seppure per ora isolati e frammentari, di lotta di classe in Italia
(da Pomigliano a Termini Imerese, dall'Alfa di Arese all'ex Eutelia),
l'esperienza degli ultimi mesi dimostra che il conflitto operaio ha una grande
capacità di contagio. La stessa lotta operaia all'Innse di Milano, con un anno
di occupazione degli stabilimenti, dimostra che le esperienze di lotta di
classe possono estendersi in modo relativamente rapido. Infatti, il diffondersi
su larga scala della pratica di "occupare i tetti" delle fabbriche -
benché si tratti di un atto meramente dimostrativo - indica che tra la classe
operaia comincia a diffondersi, confusamente, la consapevolezza che solo con la
lotta è possibile difendere il posto di lavoro. Un primo salto di qualità si è
avuto, anche in Italia, con la lotta degli operai dell'Alcoa in Sardegna:
all'annuncio della decisione dell'azienda di dare il via alla cassa
integrazione guadagni, gli operai - ormai consapevoli che la cig è sempre più
spesso l'anticamera della disoccupazione - hanno occupato la fabbrica e
"sequestrato" i manager, imponendo le loro condizioni ai padroni. Anche
negli stabilimenti della Fiat a Termini Imerese, così come in quelli dell'Alfa
di Arese, sono in corso lotte ad oltranza: a Termini Imerese è stato annunciato
lo sciopero prolungato e l'occupazione degli stabilimenti. Non è da escludersi
che nella prossima fase assisteremo all'estensione del fenomeno delle
occupazioni. Si tratta, per ora, di episodi solo isolati e frammentari, privi
di un coordinamento nazionale (e internazionale), assolutamente inadeguati a
respingere la pesantezza dell'attacco padronale. Tuttavia, sono episodi che
preoccupano, a ragione, il padronato, che vede in essi la possibile scintilla
di un conflitto di più ampie dimensioni (e per questo si prepara a farvi
fronte, inasprendo le politiche repressive). L'acutizzarsi della lotta di
classe implicherà l'acutizzarsi dei metodi di contrattacco da parte del
capitale. Dovremo aspettarci pesanti contromisure da parte della borghesia. L'istituzione
delle ronde, l'utilizzo dei vigilantes privati in funzione repressiva (v. caso
Eutelia) non sono che i primi segnali di un fenomeno che nella storia si è
ripetuto più volte, dimostrando la correttezza di quanto sostenuto da Trotsky
nel Programma di transizione: "la
borghesia non si accontenta mai della polizia e dell'esercito ufficiali" e
non esita a utilizzare milizie private.
E' necessario che il partito avvii fin da subito una
campagna per l'occupazione delle fabbriche: "Le occupazioni delle fabbriche da parte degli operai in sciopero (...)
vanno oltre i limiti del 'normale' andamento del capitalismo. Indipendentemente
dalle rivendicazioni degli scioperanti, l'occupazione temporanea delle
fabbriche sferra un duro colpo alla sacralità della proprietà capitalistica.
Ogni occupazione pone all'ordine del giorno la domanda su chi deve comandare
nella fabbrica: il capitalista o il lavoratore?" (Programma di transizione). Allo stesso tempo, occorre lanciare fin
da subito - nella prevedibile estensione delle occupazioni - una campagna per
la costituzione di comitati di lotta di
fabbrica e territoriali, coordinati a livello nazionale e internazionale. I
comitati dovranno essere eletti da tutti i lavoratori della fabbrica, superando
la limitatezza delle attuali rappresentanze sindacali (di fatto controllate
dalle burocrazie dei sindacati concertativi e svincolate dal controllo
operaio). E' altrettanto necessario organizzare fin da subito l'autodifesa
delle lotte, creando - in ogni fabbrica in mobilitazione - squadre di
autodifesa, a partire dai picchetti di sciopero.
La crisi storica del riformismo
Il riformismo è, per sua natura, incapace di offrire
risposte progressive ai bisogni delle classi subalterne, ciò è tanto più
evidente in fase di crisi economica. E' questa, in sostanza, la causa della
crisi storica che si è abbattuta su tutta la sinistra socialdemocratica
italiana che, dopo due anni di partecipazione al governo di collaborazione di
classe capeggiato da Prodi, ha vissuto due potenti sconfitte elettorali e un
tracollo politico ed organizzativo.
Parlare di crisi storica della
socialdemocrazia non significa illudersi che i partiti e i gruppi
socialdemocratici si scioglieranno come neve al sole di fronte al capitalismo in
agonia. Certo oggi è in crisi perché non ha nulla da "redistribuire",
ma dispone ancora di risorse e mezzi (che la borghesia più scaltra non le fa
mancare) per spargere nuove illusioni tra i lavoratori e cercare così di
riguadagnare - nell'aggravarsi dello scontro di classe - un ruolo come
pompiere delle lotte. I dirigenti socialdemocratici storicamente svolgono una
funzione preziosa nel preservare il sistema dominante, rinviando, frazionando,
depotenziando le lotte e conducendole, quando comunque esplodono, al tavolo
delle trattative per ottenere qualche irrilevante concessione, subito spacciata
come una "significativa vittoria".
Le "svolte a sinistra"
impresse nel 2008 dai congressi del Pdci e del Prc non sono state altro che il
tentativo di simulare - nelle condizioni date di forzata ricollocazione
all'opposizione - un riavvicinamento ai lavoratori e alle loro esigenze. Si è
trattato di svolte finte in quanto non è minimamente mutato l'orizzonte
riformista e governista di entrambi i partiti. Tanto il Prc come il Pdci hanno continuato
a governare con il Pd in regioni, province e comuni di mezza Italia e nuove
alleanze sono in campo per la prossima tornata amministrativa. Nelle intenzioni
dei gruppi dirigenti, la collocazione all'opposizione era - e le ultime
dichiarazioni di Ferrero lo dimostrano - da intendersi solo come una parentesi,
mentre l'obiettivo vero resta quello di ricostruire una futura alleanza di
governo con la cosiddetta borghesia progressista e con il suo partito liberale
di riferimento, il Pd. La scissione avvenuta nel Prc da parte dell'area
congressuale che fa capo a Vendola (Sinistra e Libertà, ora Sinistra, ecologia,
libertà dopo la frattura coi Verdi) si è giocata non tanto su questioni
strategiche, ma su come perseguire l'obiettivo di ricomporre una alleanza di
governo con la sinistra liberale, e cioè se esercitare una pressione sul Pd
direttamente come sua appendice (Vendola) o esercitarla sotto la "pressione
dei movimenti" (Ferrero).
Il vero significato dell'ennesima presunta svolta a sinistra
del Prc, dopo il magro risultato raccolto in occasione delle elezioni europee e
amministrative del 2009 con la candidatura indipendente (candidatura
indipendente solo in alcune città e province), è emerso in una recente
intervista di Ferrero a Repubblica,
titolata significativamente "Pronti ad accettare Casini premier, pur di
battere la destra di Berlusconi". Ferrero offre la disponibilità del Prc a
suggellare un vero patto di governo con il partito dell'alternanza borghese al
centrodestra, il Pd, il terzo accordo (dopo i disastri del Prodi I e del Prodi
II). Non un accordo momentaneo, ma un accordo per tutta la legislatura. Ferrero
si dice anche disponibile a sostenere la candidatura di Casini a Premier. E'
ovvio che si tratta di un annuncio importante in vista della prossima tornata
elettorale: il Prc, in crisi di militanza, ha deciso - come già ha annunciato -
di dare nuova prova di affidabilità proponendosi per un'alleanza elettorale con
Pd, IdV e Udc già in occasione delle imminenti elezioni regionali.
In definitiva, quindi, la politica
perseguita dai riformisti - anche quando non sono al governo - resta una
politica governista: la collaborazione di classe è l'elemento senza cui il
riformismo non esisterebbe e senza cui le burocrazie non potrebbero preservare
i loro piccoli o grandi privilegi, strettamente legati a questa società e
dunque all'illusione, che spargono a piene mani, che possa essere riformata e
governata diversamente.
Il centrismo in difficoltà
I gruppi centristi vivono un momento di difficoltà. Nel Pcl
di Ferrando, essendo un'organizzazione costruita sulla confusa sommatoria di
opzioni differenti (inclusi nostalgici del Pci togliattiano, fans di Chavez,
ecc.), in cui l'unico collante è dato dalla centralità del capo e da un confuso
riferimento al "comunismo", il richiamo della "svolta a
sinistra" del Prc ha esercitato una comprensibile attrazione per la gran
parte gli attivisti. Si tratta di un'organizzazione basata solo sulla ricerca
di spazi mass-mediatici: si vedano i grotteschi appelli a Berlusconi e Fini
perché "prendano le distanze" dalla Mussolini; la partecipazione alle
manifestazioni di Di Pietro; fino all'implicita esaltazione del ruolo di
"ministro della Repubblica" e agli appelli alla magistratura borghese.
Il Pcl si basa su una concezione "lassa" di partito, su una struttura
di tipo "menscevico" che raccoglie senza distinzioni di ruoli, e non
distingue, nell'assenza di una democrazia leninista, tra militanti, attivisti e
simpatizzanti. La proposta centrale del Pcl rimane oggi quella del "parlamento
delle sinistre". Cosa sia esattamente questo "parlamento", quale
lo scopo, a chi sia rivolto, chi dovrebbe farne parte, sono interrogativi su
cui vige il massimo riserbo.
Diverso il discorso per Sinistra Critica. Sc riconosce oggi,
nei testi del recente congresso, che "dall'uscita dal Prc ci aspettavamo
di più" e che la situazione non è rosea. I documenti congressuali
affermano una serie di cose abbastanza generiche sull'analisi del mondo. Il
problema concerno ciò che manca nella proposta politica e strategica. E'
rimossa la necessità di costruire un partito; è escluso il concetto di
programma transitorio per guadagnare le masse a una prospettiva di potere dei
lavoratori. E queste due mancanze (partito, programma) ben si combinano con la
permanente confusione centrista sulla questione del potere (non vi è ombra di
autocritica sul sostegno accordato a Prodi per un lungo periodo da
Turigliatto). A ciò si aggiunga che sulla necessità di un partito comunista
internazionale Sc fa un ulteriore passo indietro: non è più (come anche l'Npa
di Besancenot in Francia) sezione del Segretariato Unificato (organizzazione
che va verso un sostanziale scioglimento e rimarrà solo come rete di
informazione). In definitiva, Sc ha rimosso i pilastri di un autentico partito
comunista: programma transitorio, potere operaio, internazionale.
Il PdAC come strumento per la costruzione di un più grande partito comunista
Il Pdac non ha mai sofferto di manie di autosufficienza o di
grandezza e non ha quindi mai avuto la pretesa di essere, da solo, la risposta
all'esigenza di costruire quel più grande e radicato partito comunista che
possa risolvere la crisi storica di direzione del proletariato e, con essa, la
crisi stessa dell'umanità, che è dovuta in ultima istanza al divario tra la
maturità delle condizioni oggettive per la rivoluzione e l'immaturità delle
condizioni soggettive. Fin dalla nostra recente nascita (gennaio 2007) abbiamo
concepito il Pdac come uno strumento nella prospettiva di costruzione di un
nuovo partito rivoluzionario; ciò nel quadro della medesima battaglia condotta,
sul piano internazionale, dalla Lit, per la ricostruzione della Quarta
Internazionale.
E' per questo motivo che siamo sempre stati disponibili a
contribuire a un processo di ricomposizione che veda protagonisti militanti di
diversa provenienza che, sulla base del presupposto dell'indipendenza dalla
borghesia e dai suoi governi, sviluppino una comune condivisione di un
rinnovato programma dei rivoluzionari per l'oggi. Consapevoli dei tanti nostri limiti,
che non ci permettono di avere ancora una struttura adeguata ad affrontare un'ascesa
delle lotte operaie, possiamo però registrare i passi avanti compiuti in questi
primi due anni. Alla diffusione territoriale del nostro partito si è
accompagnato un irrobustimento delle nostre - certo ancora fragili e povere di
risorse - strutture periferiche. Sulla base di principi chiari tanto in campo
politico come organizzativo (essendo le due cose strettamente intrecciate), abbiamo
proseguito nel difficile lavoro di costruzione di un partito di militanti
inseriti nelle lotte. Oggi vediamo i primissimi frutti di questo impegno.
L'incoraggiante risultato quantitativo e qualitativo dei seminari nazionali di
formazione; l'ingresso nel partito di nuovi militanti, specialmente giovani e
giovanissimi; la partecipazione visibile e riconoscibile nella gran parte delle
manifestazioni e scioperi delle nostre Sezioni; il nostro ruolo di avanguardie
in molte delle lotte di questi mesi (dalle lotte nel pubblico impiego a quelle dei
precari della scuola, dalle lotte operaie della Ba.rsa al radicamento operaio a
Latina, ecc); il nostro ruolo riconosciuto nella costruzione di aree classiste nella
rete 28 aprile in Cgil e nella Costituente del sindacalismo di base sono la
migliore riprova che se la strada è ancora lunga, la direzione di marcia è
quella giusta.
I passi avanti compiuti anche dalla Lit-Quarta
Internazionale (e registrati al congresso mondiale) non possono che favorire,
nello stretto intreccio della costruzione nazionale e internazionale (a partire
dal comune lavoro in Europa delle Sezioni della Lit), l'ulteriore rafforzamento
del Pdac, tanto più perché la prossima fase, in Italia come in Europa e nel
mondo, sarà contrassegnata da un acuirsi dallo scontro di classe, da una
ripresa delle lotte che in alcuni Paesi - Grecia, Francia, ecc. - costituisce
già una vera e propria ascesa (mentre in altri come in Italia è solo agli
inizi).
I compiti della prossima fase e la nostra piattaforma rivendicativa
Nel quadro politico qui delineato, il PdAC presenta una piattaforma rivendicativa transitoria, per un intervento finalizzato alla costruzione di un percorso di lotte che porti al rovesciamento degli attuali rapporti di forza tra le classi:
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Per la difesa del diritto di sciopero e di manifestazione! No alla repressione delle lotte! La cancellazione di fatto del diritto di sciopero nel settore dei trasporti, con l'imposizione del referendum per le organizzazioni che sono al di sotto del 50% di rappresentatività, la dichiarazione obbligatoria di adesione allo sciopero, lo sciopero virtuale, l'allungamento degli intervalli tra uno sciopero e l'altro, le sanzioni per le violazioni delle regole; il divieto di manifestare nei fine settimana nei centri storici delle città; l'annunciato ulteriore inasprimento delle misure repressive nei confronti di ogni manifestazioni di dissenso; l'istituzione delle cosiddette ronde sono solo l'anticipo di altri attacchi preventivi di governo e padronato, in vista di una stagione di lotte che si annuncia sullo sfondo della crisi capitalistica. Non è un caso che il ddl Sacconi - che ha ricevuto il via libera di Cisl e Uil - vieti da subito tutte le forme di conflitto che si esprimano con il "blocco fisico" di siti, strade, aeroporti, ecc. Il PdAC si oppone a tutte queste misure e contribuisce alla costruzione dell'autodifesa operaia contro la repressione padronale.
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Per la difesa dei diritti democratici e delle conquiste sociali degli operai, della laicità e delle libertà individuali! Il PdAC difende i diritti democratici e le conquiste sociali della classe operaia, che, in questa fase di capitalismo in decadenza, vengono continuamente messi in discussione dalla borghesia e dai suoi governi: ingerenze del Vaticano nelle questioni che riguardano interruzione di gravidanza, eutanasia, diritti delle donne; violazione sistematica del diritto di manifestazione e della libertà di opinione (in relazione, ad esempio, all'impossibilità di mettere in discussione lo Stato d'Israele), ecc.
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Forti aumenti salariali per tutti! Scala mobile dei salari e delle ore lavorative! Fin da subito, salario sociale, pagato coi profitti dei padroni, equivalente al salario medio, per tutti i disoccupati! Il PdAC rivendica lavoro e condizioni di vita dignitose per tutti e, per questo, respinge gli accordi concertativi tra organizzazioni sindacali, governo e padronato: sono accordi che hanno il solo intento di depredare la classe lavoratrice a vantaggio della borghesia. I contratti collettivi devono assicurare l'aumento automatico dei salari in relazione all'aumento dei prezzi dei beni di consumo. Contro la disoccupazione, sia "strutturale" che "congiunturale", il PdAC avanza la parola d'ordine della scala mobile delle ore lavorative: tutto il lavoro disponibile deve essere diviso tra tutti gli operai, in relazione alla durata della settimana lavorativa e a parità di salario. I salari, con un minimo rigorosamente garantito, devono essere adeguati all'andamento dei prezzi (scala mobile). Fin da subito, in vista del riassorbimento di tutta la disoccupazione, deve essere garantito un salario sociale ai disoccupati pari al salario medio, pagato con la redistribuzione dei profitti dei padroni.
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Riduzione dell'età pensionabile per uomini e donne! Aumento automatico delle pensioni in relazione al carovita! I governi di entrambi gli schieramenti hanno accelerato sul terreno dell'aumento dell'età pensionabile (da ultimo, l'innalzamento a 65 anni l'età pensionabile delle donne nel pubblico impiego: proposta che non tiene conto che le donne svolgono di fatto, non retribuite, una doppia attività lavorativa con la cura dei figli e della casa). Il PdAC respinge questi attacchi e rivendica la riduzione dell'età pensionabile - a partire dalle donne, prime vittime dello smantellamento delle strutture pubbliche, asili, mense ecc -, l'aumento automatico delle pensioni in relazione all'aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, pensioni dignitose per tutti.
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Assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori precari! Sono centinaia di migliaia i lavoratori precari che, negli ultimi due anni, hanno perso il posto di lavoro per il mancato rinnovo dei contratti. Nella scuola pubblica in tre anni è prevista la perdita di oltre 150 mila posti di lavoro, che in gran parte si sta traducendo nel licenziamento di lavoratori precari. Oggi si raccolgono i frutti amari di un decennio di leggi precarizzanti, volute dai governi di entrambi gli schieramenti (si pensi al famigerato Pacchetto Treu del centrosinistra, votato anche dal Prc, che ha aperto la strada, nel 1997, all'utilizzo su larga scala dei contratti precari, e alla legge Biagi del centrodestra). Il PdAC rivendica l'assunzione immediata di tutti i lavoratori precari a tempo indeterminato, unica garanzia per evitare che questi lavoratori si trasformino in disoccupati. Il posto fisso di lavoro è un diritto elementare che il capitalismo non è in grado di garantire. Per questo, tale parola d'ordine si coniuga per noi con l'abbattimento del capitalismo e con la rivendicazione di un altro sistema economico e sociale.
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Permesso di soggiorno e cittadinanza per tutti gli immigrati, con pari diritti politici e sociali dei lavoratori italiani! Di fronte alla recrudescenza delle politiche di esclusione e intolleranza razziale, a partire dalle leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini e dai recenti provvedimenti sulla "sicurezza" di Amato e Maroni, fino alla istituzione delle "ronde", i lavoratori immigrati pagano per primi i costi della crisi. Il PdAC difende il diritto degli immigrati al permesso di soggiorno, alla cittadinanza, a un posto di lavoro, a salari dignitosi, all'autodifesa organizzata per respingere gli attacchi razzisti e xenofobi sia che provengano da squadre razziste che dalle forze dell'ordine borghese. Rivendica per gli immigrati gli stessi diritti dei lavoratori nativi, sia sul terreno dei diritti politici e civili, che su quello dei diritti sociali.
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Trasporti, scuola, sanità e previdenza pubblici e gratuiti! Per il diritto alla casa, riduzione e blocco degli affitti, requisizione delle case sfitte ed esproprio delle grandi proprietà immobiliari! Il diritto a trasporti pubblici e gratuiti e quello a una casa sono diritti minimi, che il sistema capitalistico non garantisce ai lavoratori. Per garantirli è necessario: avviare un piano di completa statalizzazione del sistema dei trasporti, da affidare alla diretta gestione dei lavoratori; riduzione e blocco degli affitti; requisire le case sfitte ed espropriare le grandi proprietà immobiliari, ridistribuendole a lavoratori e disoccupati - nativi o stranieri - sotto il controllo di comitati popolari.
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Per il diritto alla salute nei luoghi di lavoro, contro il degrado ambientale e le fonti di inquinamento! La corsa ai profitti e alla riduzione dei costi si traduce, nell'epoca del capitalismo in putrefazione, in devastazione dell'ecosistema e peggioramento delle condizioni di lavoro (come dimostra tragicamente il fenomeno dei morti sul lavoro). La crisi del capitalismo accentua la distruzione e il degrado ambientali, rende più pericolosi e malsani i luoghi di lavoro. Rivendicare una gestione della produzione e dell'economia compatibile con il rispetto dell'ambiente e della salute significa porsi nell'ottica della costruzione di un'economia pianificata, sotto controllo dei lavoratori, che sappia conciliare sviluppo delle forze produttive e tutele.
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No alla cassa integrazione ordinaria e straordinaria, precorritrici in questa fase della mobilità! Nessun lavoratore deve essere licenziato: le ristrutturazioni aziendali le paghino i padroni ridistribuendo i profitti! Occupazione delle fabbriche che chiudono e licenziano! Il diritto al lavoro è un diritto elementare, che il capitalismo nella sua fase di decadenza non garantisce. I milioni di disoccupati e di cassa integrati destinati alla disoccupazione dimostrano l'assurdità del sistema capitalistico che, nonostante lo sviluppo delle forze produttive, riduce alla miseria milioni di persone. La cassa integrazione - ordinaria e straordinaria - costituisce un mezzo per preservare i profitti dei padroni e metterli a riparo da rischi di mercato o fallimenti scaricando i costi delle ristrutturazioni sulle spalle della collettività, cioè, ancora una volta, sui lavoratori (costretti tra l'altro a sopravvivere con un poche centinaia di euro al mese, spesso nemmeno elargite). Il PdAC rivendica il diritto al lavoro e a un salario dignitoso per tutti; respinge i tentativi di scaricare i costi della crisi sulle spalle dei lavoratori; sostiene i lavoratori che occupano le fabbriche in crisi.
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Costruzione in tutte le fabbriche in mobilitazione di comitati di fabbrica, coordinamento degli stessi a livello regionale, nazionale e internazionale! Per la costruzione di comitati di lotta! Il PdAC sostiene la costruzione di comitati di fabbrica in tutte le aziende i cui lavoratori sono in mobilitazione. I comitati dovranno essere eletti da tutti i lavoratori della fabbrica, superando la limitatezza delle attuali rappresentanze sindacali (di fatto controllate dalle burocrazie dei sindacati collaborazionisti e svincolate dal controllo operaio). E' necessario superare l'isolamento e la frammentazione delle lotte, favorendo il coordinamento - sia su scala regionale che nazionale e internazionale - delle lotte operaie. Nella previsione di un' ulteriore crescita delle lotte operaie, il PdAC si impegna a favorire la costruzione di strutture di coordinamento delle lotte, di comitati di lotta territoriali, nella prospettiva - se si aprirà una fase apertamente rivoluzionaria - di organismi di potere operaio ("soviet").
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Organizzazione dell'autodifesa operaia attiva - a partire dai picchetti di sciopero - contro gli attacchi delle forze dell'ordine borghese, dell'esercito, delle "ronde" per la sicurezza, delle milizie private della borghesia, dei gruppi neofascisti. I capitalisti non dimenticano le lezioni del passato: sanno che, in un momento storico in cui non hanno "briciole" da distribuire, la lotta di classe può trasformarsi in conflitto acceso (come in Grecia). Anche in vista di una prevedibile ulteriore recrudescenza autoritaria e repressiva da parte borghese, è necessario costruire quella direzione rivoluzionaria che organizzi - a partire dai picchetti di sciopero e dai comitati di lotta - la difesa operaia e proletaria delle manifestazioni, dei partiti operai, delle strutture di lotta, legandola anche ai tentativi di autodifesa delle comunità immigrate. Il PdAC si fa promotore, nelle fabbriche, di squadre operaie per la difesa delle lotte. Il PdAC rifiuta qualsiasi utilizzo individuale della violenza: gli atti di terrorismo individuale ostacolano il radicamento del partito tra le masse (come dimostra l'esperienza italiana degli anni Settanta) e sono per questo in contraddizione col marxismo rivoluzionario.
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No ai finanziamenti a banchieri e capitalisti! Abolizione del segreto commerciale! Apertura dei libri contabili delle banche e delle aziende! Di fronte al collasso del sistema industriale e creditizio, i governi, mentre tagliano la spesa pubblica (scuola, sanità, ecc) "per la situazione di emergenza" rispondono regalando altri miliardi a banchieri e capitalisti, cioè ai responsabili di questo disastro economico e sociale. Il PdAC respinge questo affronto alla classe lavoratrice. Gli operai hanno il diritto di conoscere i conti delle fabbriche e delle società per azioni, così come di tutti i rami dell'economia nazionale. I compiti immediati del controllo operaio dovranno essere: esibire crediti e debiti di aziende e banche; stabilire, in funzione della redistribuzione sociale, le quote di reddito nazionale di cui si sono appropriati i vari capitalisti (a partire da quelli che annunciano fallimenti e conseguente smantellamento delle aziende); mostrare gli affari occulti e le truffe delle banche e dei gruppi capitalistici; svelare, in definitiva, agli occhi delle masse il carattere contraddittorio dell'economia capitalistica.
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Le aziende che licenziano o chiudono e le banche in crisi devono essere espropriate e poste sotto il controllo dei lavoratori! Rivendichiamo l'esproprio - senza indennizzo e sotto controllo dei lavoratori - delle aziende che chiudono e licenziano, delle industrie in crisi che sono vitali per la sopravvivenza della nazione, dei gruppi parassitari coinvolti in truffe e falsi in bilancio. Allo stesso tempo, lanciamo la parola d'ordine dell'esproprio delle banche private e la costruzione di una banca unica di Stato che possa garantire i risparmi dei lavoratori e migliori condizioni di credito per i piccoli artigiani, i commercianti, i contadini.
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Lotta contro le guerre imperialiste! Ritiro immediato di tutte le truppe di occupazione! Chiusura delle basi militari e loro conversione ad uso civile! Confisca dei profitti delle missioni militari ed esproprio dell'industria bellica! La guerra è un grande affare commerciale per i gruppi capitalistici che controllano l'industria bellica. Anche in vista del prevedibile acutizzarsi delle tensioni interimperialistiche, occorre sottrarre dalle mani degli avidi capitalisti la possibilità di decidere dei destini dei popoli. Non un uomo né un soldo per i governi dei padroni! No alle spese militari dei governi di entrambi gli schieramenti. Sì a un programma sociale di opere pubbliche! Chiusura delle basi militari e loro conversione ad uso civile! Esproprio dell'industria bellica, confisca dei profitti delle missioni militari (a partire da quelli dell'Eni), ritiro immediato delle truppe d'occupazione in Afghanistan, Libano, ecc.
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Per un'economia socialista pianificata, unica soluzione alla crisi capitalistica! Le premesse oggettive della rivoluzione socialista hanno raggiunto il massimo sviluppo possibile in un contesto capitalistico. Senza una rivoluzione socialista nel prossimo periodo storico una catastrofe minaccia l'umanità. Solo un'economia pianificata, sotto controllo dei lavoratori, può salvare l'umanità dalla spirale di guerra e miseria in cui il capitalismo la sta trascinando.
Nel loro insieme queste rivendicazioni presuppongono un governo dei lavoratori per i lavoratori che avvii il superamento di questo sistema economico capitalistico e la costruzione di uno Stato operaio e socialista.