A quararant'anni dalla morte di Guevara
Il Che: un rivoluzionario incorruttibile
Francesco Ricci
Incompatibile col riformismo
Ci sono personaggi della storia del movimento operaio che,
per loro natura, stanno scomodi sulla poltrona dei barbieri del revisionismo.
Uno di questi personaggi è Ernesto Che Guevara. Non bastano forbici e pettine, nemmeno
se maneggiati da un imbattibile figaro come Bertinotti, per cambiare
"acconciatura" al Che e trasformarlo in un riformista da salotto
borghese: un ciuffo rivoluzionario scapperà sempre da sotto a quel basco.
E' per questo che, nel suo recente viaggio latinoamericano,
l'azzimato presidente della Camera ha informato i lettori (certo in impaziente
attesa di una sua nuova idea sul mondo) che i giovani dovrebbero preferire
Salvador Allende e il suo riformismo pacifico alla guerriglia di un Che poco
attento ai dettami della "nonviolenza". In effetti Guevara è morto
troppo presto per poter gustare le meditazioni kantiane di Bertinotti sulla
"pace eterna" o gli editoriali della "luxemburghiana" Rina
Gagliardi (così ama definirsi, anche se abbiamo avuto notizia del disagio di
Rosa per questa discepola non cercata) o le palingenesi storiche da caffè del
sottosegretario Alfonso Gianni. La stampa borghese ha ospitato con malcelata
soddisfazione quest'ennesima abiura del leader di Rifondazione (dove lo
trovano un "comunista" che nel giro di quindici giorni esalta la
"cultura della destra", abbraccia i parà fascisti della Folgore,
cerca Dio tra gli ulivi - e le telecamere - sul monte Athos e, infine, sputa
sul basco del Che?).
Questa volta, tuttavia, l'obiettivo della iconoclastia
bertinottiana non pare granché originale: è da mezzo secolo che riformisti e
stalinisti di tutto il mondo provano a cancellare Guevara dall'immaginario di
rivolta dei giovani. Cancellarlo perché non è possibile sminuzzarlo e
riassorbirlo nel canone riformista. Comunque li si giri, i testi di Guevara - e
soprattutto la sua vita di militante rivoluzionario - non sono conciliabili con
l'idea che anima ogni buon riformista secondo cui il mondo deve continuare a
essere dominato da qualche centinaio di miliardari a scapito di qualche
miliardo di proletari; il teorico della guerriglia non può essere assimilato al
gradualismo e alla grisaglia ministeriale; il suo "due, tre molti
Vietnam" non combaciava ieri con la "coesistenza pacifica"
voluta da Mosca come non si combina oggi con il colonialismo e i Caschi Blu
dell'Onu.
Sfuggire alla falsificazione ma anche all'agiografia
Questo autunno (a ottobre cadono i quarant'anni
dell'assassinio del Che) le librerie saranno invase da libri - ne abbiamo già
avuto una prima dose in queste settimane. L'industria culturale punta a far
soldi e, per vendere, l'editoria capitalistica (che guarda più alle entrate di
cassa immediate che agli interessi storici della sua classe) non fa distinzioni
politiche: se Guevara si vende bene, si ristampino i suoi scritti o saggi, che
lo sminuiscano o lo esaltino, purché abbiano tutti in copertina quella foto di
Korda che attira gli acquirenti.
Una buona parte dei libri in uscita saranno libri inutili. Diversi
saranno i libri, talvolta anche interessanti, intenti a esaltare un mito non ad
analizzare la concreta evoluzione di un rivoluzionario. Altri ancora si
spingeranno a sostenere ancora la necessità di una improbabile sintesi tra
guevarismo e marxismo.
Nel breve spazio di questo articolo vorremmo indicare i
punti di una possibile riflessione da sviluppare e i testi che possono essere
utili per farlo.
I primi passi di Guevara verso il marxismo
Ogni pensiero subisce un'evoluzione, legata all'esperienza e
al contesto che lo ha generato: di Guevara si può aggiungere che l'evoluzione è
avvenuta in modo non lineare, con balzi e brusche svolte in vari momenti e in
particolare negli ultimi due anni di vita.
Il giovane Guevara ebbe modo scoprire direttamente
l'impossibilità del riformismo già negli anni Cinquanta, nel Guatemala in cui
Jacobo Arbenz, diventato presidente su un programma di timido riformismo, si
trovò suo malgrado a scontrarsi con le multinazionali (la United Fruit che
controllava le terre) e fu per questo rovesciato da un'invasione di mercenari
organizzata dalla Cia. Quella esperienza di illusione-delusione segnò per
sempre Guevara. Solo in seguito iniziò le prime letture marxiste, consigliato
dalla moglie Hilda Gadea, e con questo bagaglio di conoscenze empiriche e di
studio si avvicinò al gruppo di Castro, partecipando quindi alla guerriglia a
Cuba come uno dei comandanti.
Guevara conobbe i fratelli Castro nel 1955. I Castro erano reduci
dal fallimento dell'assalto alla caserma Moncada (26 luglio 1953) e Fidel aveva
già stilato il proprio manifesto politico in forma di autodifesa al processo:
"La storia mi assolverà". Guevara (è nato nel 1928), da poco laureato
in medicina, aveva invece già viaggiato molto in America Latina, maturando un
odio profondo contro le ingiustizie di un mondo reso misero e terribile dallo
sfruttamento imperialista.
Nel gruppo che col Gramna sbarcò a Cuba per dare vita alla
guerriglia nella Sierra Maestra (1956) il marxismo non era moneta corrente. Il
programma dei "barbudos" era quello di una rivoluzione democratica
contro il dittatore Batista. Come precisò in un'intervista del marzo '57
Guevara: "Fidel non è un comunista. Dal punto di vista politico il suo Movimento
potrebbe essere definito di 'rivoluzionari nazionalisti' (...). La persona che
tiene di più all'etichetta di comunista sono io." (1)
E' questo sentirsi comunista che spinse il Che a cercare un
rapporto col Psp, cioè il Pc staliniano di Cuba. Lo stalinismo ha fatto anche
in America Latina danni incalcolabili. L'applicazione della politica dei fronti
popolari e poi dell'allenza, durante la Seconda guerra mondiale, con le democrazie
imperialiste si tradusse nell'ingresso dei Pc in governi reazionari (il Psp
ebbe propri ministri nell'esecutivo di Batista negli anni Quaranta) e financo
nello scioglimento di molti partiti comunisti - teorizzato e diretto da Earl
Browder, segretario del Pc Usa e responsabile dell'Internazionale stalinizzata
per l'America Latina. A Cuba il Psp aveva un certo radicamento nei sindacati e
nelle città: un radicamento di cui era priva la guerriglia, per scelta
concentrata nelle campagne.
Il colpo decisivo al regime di Batista venne comunque dallo
sciopero generale alla cui testa era la classe operaia che nel dicembre del
1959 aprì la porta delle città alla guerriglia: il 1 gennaio cadde Santa Clara
e il giorno dopo il Che e Cienfuegos entrarono all'Avana.
Il programma del Movimento 26 luglio era quello di una
"autodelimitazione" della rivoluzione al solo terreno democratico,
così come Castro aveva confermato a Nixon in un viaggio a Washington pochi mesi
prima della vittoria. Tuttavia, nell'intrecciarsi di spinte diverse - la
diffidenza dell'imperialismo che si tramuta in ostilità, l'incapacità della
borghesia nazionale di svolgere un ruolo rivoluzionario e di impegnarsi negli
stessi compiti democratici della rivoluzione, le aspettative delle masse - il
processo tracima dagli argini previsti e il nuovo potere avvierà l'esproprio delle
proprietà imperialiste, attraverso grandi nazionalizzazioni e la distribuzione
della terra ai contadini poveri, costituendo in questo modo uno Stato operaio. Uno
Stato sottratto al dominio del capitalismo ma al contempo nato deformato, perché
privo di strutture di direzione di tipo "sovietico", di organismi di
direzione della classe operaia simili a quelli dei primi anni della Russia
rivoluzionaria (i Comitati di Difesa della Rivoluzione saranno solo una
sbiadita imitazione di strutture consiliari). Da subito il Movimento 26 Luglio
non si limiterà a svolgere un ruolo dirigente nello Stato ma sostituirà,
esautorandoli politicamente, i lavoratori, privandoli di un ruolo di direzione,
istituendo quel controllo burocratico-paternalistico che ha contraddistinto Cuba
nei decenni successivi, conducendo infine alla restaurazione del capitalismo
(ma non è questo il tema del presente articolo -2).
Le ripetute aggressioni imperialiste (ad aprile del '61 l'Esercito Rebelde, con il
sostegno attivo della popolazione, che vuole difendere le conquiste che hanno
portato l'isola fuori dal medioevo di Batista, respinge l'invasione dei
mercenari della Cia a Playa Giron) e l'attrazione esercitata dall'Urss, nel
contesto della guerra fredda, condurranno subito dopo Cuba nel "campo
socialista" (quello cioè dei Paesi operai stalinizzati). Il 1 maggio 1961
Castro proclamerà il carattere "socialista" della rivoluzione.
Ministro senza privilegi, ambasciatore senza diplomazia
La svolta a sinistra della rivoluzione porta il Che a divenire
il principale dirigente insieme a Castro. A lui è affidato il ministero
dell'Industria e una buona parte della gestione economica dello Stato: compiti
gravosi che assolverà immergendosi come sempre nello studio e usando anche
quell'ironia che lo contraddistingueva (diceva spesso ridendo: "soy un
comunista, no soy un economista").
Questo strano ministro, che si presenta alle assemblee
internazionali in divisa, anfibi, basco e pistola alla cintura, rifiuta per sé
ogni privilegio. Una caratteristica del Che derivata non solo da un carattere
generoso ma anche dalla riflessione sui privilegi che vede lentamente crescere
nel piccolo e neonato Stato e soprattutto sui privilegi burocratici ben più
grandi che inizia a conoscere coi suoi viaggi nei Paesi del "socialismo
reale". La sua iniziale idealizzazione di quei Paesi si scontra con una
realtà che non gli piace e che sta alla base di una politica internazionale che
gli sembra in profonda contraddizione con l'internazionalismo socialista.
Ambasciatore della rivoluzione privo di ogni ipocrisia
diplomatica, inizia così a criticare e ad attaccare sempre più duramente i
Paesi stalinisti. Questo suo nuovo atteggiamento è chiaro nel discorso che
tiene al II Seminario economico afro-asiatico di Algeri (febbraio del 1965): "I
Paesi socialisti hanno il dovere morale di porre fine alla loro tacita complicità
con i Paesi sfruttatori dell’occidente.” La politica della "coesistenza
pacifica" con l'imperialismo è il rovesciamento della sua convinzione che
solo un'estensione della rivoluzione, a partire dall'America Latina, potrà
consentire uno sviluppo socialista nella sua isola adottiva.
Vicinanza e distanza col marxismo rivoluzionario
Le posizioni che va via via assumendo gli valgono l'ostilità
manifesta delle burocrazie staliniste di tutto il mondo, che iniziano a parlare
di una sua deviazione "trotskista" (un dirigente moscovita spiegò che
la volontà di Guevara di "stimolare il movimento rivoluzionario lo
smaschera definitivamente come trotskista").
In realtà il Che non è e non diventerà trotskista: la sua conoscenza
(come vedremo tra poco) di Trotsky è tardiva e avviene solo nel periodo che
precede la morte. Ci sono in effetti molte somiglianze tra alcune sue posizioni
e quelle tradizionalmente difese dal marxismo rivoluzionario: ma ciò non
consente né di parlare di un "Che trotskista" (cosa che comunque non
fa nessuno) né di parlare di un trotskismo "inconsapevole" e
parziale, come invece fanno diversi autori di opere pur interessanti e
documentati (ad es. Antonio Moscato) o coloro che teorizzano la necessità di
una specie di sintesi tra marxismo rivoluzionario e guevarismo o, infine, vedono
nel guevarismo uno sviluppo del marxismo (è il caso dei testi - comunque molto
utili - di Roberto Massari).
I punti di contrasto tra Guevara e ogni gradualismo rendono
il suo pensiero, i suoi scritti e la sua azione non assimilabili (nemmeno con
l'ausilio di una lente deformante) allo stalinismo o alle diverse varianti del
riformismo socialdemocratico; al contempo su altri punti fondamentali le teorie
guevariane rimangono distanti dal marxismo.
Vediamo per prima cosa i punti di contatto.
1) Guevara rifiuta l'ipotesi di arrivare al socialismo attraverso la via parlamentare e le riforme. E' consapevole (specie dopo la verifica diretta in Guatemala) che le classi dominanti non si lasciano espropriare nemmeno da governi legittimamente eletti. L'impossibilità di "conquistare" lo Stato borghese e la necessità quindi di "spezzarlo" attraverso una rivoluzione violenta costituiscono le fondamenta granitiche del marxismo rivoluzionario fin dai tempi dell'analisi di Marx della Comune di Parigi (analisi posta poi da Lenin alla base del partito bolscevico e dell'intera Internazionale Comunista). Gli scritti di Guevara contro le illusioni nelle “transizione pacifiche” sono netti, e riletti oggi, dopo il dramma cileno del ‘73, appaiono persino profetici (salvo che uno si chiami Bertinotti e abbia preferito la presidenza della Camera bassa al comunismo). A puro titolo di esempio, si legga questo brano: “Quando si parla di conquista del potere per via elettorale, la nostra domanda è sempre la stessa: se un movimento popolare conquistasse il governo di un Paese con un’ampia votazione e decidesse di iniziare le grandi trasformazioni sociali (...) non entrerebbe immediatamente in conflitto con le classe reazionarie di quel Paese? L’esercito non è sempre stato lo strumento di oppressione di quella classe? Se così è, è logico pensare che quell’esercito si schiererà con la sua classe ed entrerà in conflitto col governo costituito. Quel governo sarà rovesciato mediante un colpo di stato (...).” (in “Cuba: eccezione storica o avanguardia nella lotta anticoloniale.”, 1961).
2) Guevara arriva empiricamente a scoprire uno degli aspetti
della teoria della rivoluzione permanente (sviluppata da Trotsky e nei fatti
assunta dal partito bolscevico con la svolta impressa da Lenin con le Tesi di
aprile del 1917): non è possibile né una egemonia della borghesia nazionale in
una presunta tappa "democratica" della rivoluzione (posizione dei
menscevichi), né una rivoluzione guidata dal proletariato che si
"autodelimiti" con una prima tappa "democratica" (che
precederebbe la seconda tappa, distinta, socialista: posizione dei bolscevichi fino
ad aprile). E' quanto il Che afferma con chiarezza nel suo "testamento
politico", cioè nel Messaggio alla Tricontinental: “Le borghesie nazionali
hanno perso ogni carattere di opposizione all’imperialismo (se mai l’ebbero sul
serio) e ne costituiscono anzi il vagone di coda. Non c’è alternativa ormai: o
rivoluzione socialista o caricatura di rivoluzione.”
Questa affermazione - che riprende quasi letteralmente
alcune frasi della Rivoluzione permanente di Trotsky - non era poca cosa
in un'epoca in cui i Pc dell'America Latina (ma anche altre direzioni
piccolo-borghesi di diversa estrazione) rivendicavano una concezione
"tappista" della rivoluzione. Per Guevara (come per Trotsky e Lenin)
il processo è viceversa quello di una rivoluzione socialista che assolve i
compiti della rivoluzione borghese e si sviluppa in contrapposizione tanto
all'imperialismo come alla borghesia nazionale. Acquisizione che ancor oggi
costituisce un discrimine in America Latina tra il marxismo rivoluzionario e le
varie esperienze "bolivariane".
3) Guevara non crede sia possibile concepire l'Internazionalismo
come generica solidarietà internazionale: “L’internazionalismo proletario è un
dovere, ma anche una necessità rivoluzionaria.” (“Il socialismo e l’uomo a
Cuba”, 1965). Il rifiuto di una concezione nazionalista del processo
rivoluzionario è racchiuso nella sua biografia di argentino che va a combattere
per la rivoluzione a Cuba e poi di capo di uno Stato rivoluzionario che va in
giro per il mondo, fino alla Bolivia, per favorire nuove rivoluzioni in altri
Paesi. Guevara è cittadino e rivoluzionario del mondo.
Ma i punti di contatto non possono essere messi in luce
senza rischiarare anche i loro difetti che coincidono poi con i punti di
differenza tra marxismo e guevarismo.
a) il marxismo concepisce la "rottura" della macchina statale (v. punto 1) come compito dell'insurrezione della classe operaia che costituendo una propria milizia si scontra (in una guerra civile) con lo Stato borghese, disgregandolo e attirando dalla sua parte settori delle forze armate. Al contrario, la teoria del "fuoco guerrigliero" di Guevara sostituisce all'azione autonoma della classe operaia (attraverso i suoi strumenti: gli scioperi, l'autorganizzazione in strutture consiliari, lo sciopero generale e l'insurrezione) l'azione di piccoli gruppi di una guerriglia che nasce e si sviluppa nelle campagne. Per questo il dirigente trotskista Nahuel Moreno, in una importante e franca critica del guerriglierismo, ha precisato: "La guerriglia è esattamente opposta alla guerra civile, in cui la mobilitazione operaia e di massa assume forme armate, guerrigliere (nel senso tecnico del termine), insurrezionali o di guerra convenzionale tra eserciti come fu la guerra civile in Russia." (3)
b) il marxismo rivoluzionario era giunto da mezzo secolo
alle conclusioni sul carattere della rivoluzione nei Paesi dipendenti (v. punto
2) a cui Guevara arriva in un percorso di intelligente ricerca e scavo tra le
macerie provocate dallo stalinismo. Ma per Trotsky e Lenin la prospettiva di
una "rivoluzione permanente" richiama il compito di costruire un
partito d'avanguardia, come quello bolscevico, che guadagni un'influenza di
massa nella classe operaia (a prescindere dalle sue dimensioni in un dato
Paese, unica classe in grado di trascinare dietro di sé i contadini poveri e le
classi intermedie). Una influenza di massa che il partito raggiunge utilizzando
un programma di rivendicazioni transitorie, che partendo dai livelli di
coscienza e di mobilitazione dati della classe portino settori crescenti di
avanguardia alla comprensione della necessità del rovesciamento rivoluzionario
per aprire la strada a un governo operaio, cioè alla dittatura del
proletariato. Guevara sostituisce invece, come abbiamo visto, la classe operaia
con i contadini poveri delle campagne; il programma transitorio con la
"azione esemplare" dei guerriglieri; il partito d'avanguardia che
influenza le masse nel corso della loro lotta con un manipolo di guerriglieri
che "cospirano" nella selva.
La verifica dei fatti (già nella rivoluzione cubana) ha
smentito la teoria "fochista". Anche negli anni seguenti, pur essendo
questa "opzione" praticata da migliaia di militanti in America Latina
(militanti che spesso abbandonavano il marxismo rivoluzionario traviati da
queste teorie), essa ha condotto regolarmente a sconfitte, anche molto
dolorose.
c) Lo spirito internazionalista del Che, che lo condusse a
combattere su fronti molto lontani dalla sua nazione reale o adottiva, non
sfociò tuttavia nella comprensione della necessità di costruire una
Internazionale operaia rivoluzionaria. Alla costruzione del partito mondiale
della rivoluzione proletaria con sezioni in ogni Paese - che fu la strada
maestra del marxismo rivoluzionario dalla metà dell'Ottocento - Guevara
sostituì la concezione dell'estensione della guerriglia con "fuochi"
guerriglieri in "due, tre, molti" Paesi.
Chi tende a presentare Guevara se non come un trotskista
perlomeno come una sorta di trotskista "inconsapevole" ignora quindi le
differenze di fondo fin qui elencate e magari ingigantisce alcuni aspetti del
pensiero di Guevara che - in sé positivi - hanno una valenza più limitata di
quella attribuita. Antonio Moscato, ad esempio, anche nel suo più recente
lavoro (4), pubblicando alcuni inediti, enfatizza la battaglia anti-burocratica
di Guevara. Alcune riflessioni di Guevara (a partire dal dibattito al Ministero
dell'Industria) sono effettivamente interessanti ma sarebbe un errore
confondere questa battaglia del Che contro i privilegi burocratici (a Cuba e
nei Paesi dell'Est) con quella che svilupparono i bolscevichi dell'Opposizione
di Sinistra nell'Urss degli anni Venti contro lo stalinismo e che continuò il movimento
trotskista e la
Quarta Internazionale in seguito. Guevara in effetti studiava
le distorsioni burocratiche ma le sue proposte di soluzione erano più
"volontaristiche" e "etiche" che politiche. Come scrive
Martin Hernandez in un articolo su Marxismo Vivo (5), quella del Che fu
una battaglia contro i privilegi burocratici più che contro la burocrazia:
"Il Che fu un esempio vivo di una lotta contro i privilegi materiali per i
dirigenti della rivoluzione e dello Stato ma il Che non lottò contro la
burocratizzazione dello Stato. Non difese la democrazia operaia, che è l'unica
possibilità di lottare, con possibile successo, contro la burocratizzazione."
Non si batté, cioè, per la costituzione di organismi di democrazia diretta dei
lavoratori, nemmeno a Cuba.
La tardiva conoscenza di Trotsky
Un'altra lettura di sinistra è quella di chi vede in Guevara
l'ideatore di una variante del marxismo rivoluzionario cui bisognerebbe
attingere in una "sintesi superiore" per fondare una moderna teoria
rivoluzionaria.
Questa lettura non regge perché le distanze tra marxismo e
guevarismo sono in molti aspetti troppo ampie. Come confermano anche preziose
indicazioni biografiche sul Che che spesso sono state riportate all'attenzione
da una meritoria opera di studio di questi stessi autori.
Il Che non stava elaborando una "variante" del
marxismo rivoluzionario: stava piuttosto cercando di colmare lacune di
conoscenza che lo accomunavano a tanti altri rivoluzionari e che erano la
diretta conseguenza di una stagione intera di falsificazione e cancellazione
della storia del marxismo rivoluzionario operate in perfetta simbiosi dallo
stalinismo e dalla socialdemocrazia. In questa opera di scavo archeologico, il
Che si trovava talvolta per le mani reperti che non sempre poteva classificare
e inserire in una tavola teorica più ampia: ma essendo dotato di grandissime
capacità intellettuali e animato da una sincera passione rivoluzionaria,
procedeva per approssimazioni. Per questo la sua evoluzione fino agli ultimi
anni di vita è di particolare interesse: il Che ritrovava un patrimonio teorico
e di lotte del movimento rivoluzionario e faceva questo lavoro gigantesco non
nel chiuso di una biblioteca ma combattendo in prima linea, studiando e
leggendo e ancora leggendo e studiando con accanimento ossessivo, persino nelle
pause degli scontri con l'esercito in Bolivia.
Il "trotskismo" che aveva potuto conoscere fin lì
il Che era quello di piccole sette posadiste cubane o la versione falsificata
dallo stalinismo. Il Che conobbe inizialmente solo in maniera superficiale la
battaglia di Trotsky (6) contro la burocrazia controrivoluzionaria, la cui eco
pure era giunta a Cuba grazie all’incontro nel 1927 a Mosca tra uno dei
giovani dirigenti del Pc cubano, Antonio Mella. Mella, assassinato in Messico
per il suo “trotskismo” dai sicari stalinisti (probabilmente comandati da
Vittorio Vidali, uomo di Togliatti), aveva seminato bene. Sandalio Junco
(anch’egli assassinato, nel 1942, da sicari stalinisti) e altri giovani cubani
fondarono infatti il Partito Bolscevico Leninista che, pur non diventando mai
un’organizzazione di massa (cosa che contribuirono ad impedire, col piombo, gli
stalinisti), ebbe un ruolo significativo nell’ondata rivoluzionaria che nel
1933 scosse l’isola. Anche in quell’occasione, i leninisti del Pcb (che
egemonizzavano la
Federazione Obrera de La Habana) si trovarono contrapposti agli stalinisti
che, guidando il sindacato maggiore (il Cnoc), riuscirono nell’opera di
“pompieraggio” dello sciopero generale. Il Pbl scriveva nel suo Manifesto di
fondazione che solo una collocazione di classe indipendente poteva salvare il
proletariato dalla disfatta, essendo la borghesia nazionale per sua natura
incapace di condurre la lotta rivoluzionaria.
Il Che non è allora il teorico di un "nuovo"
marxismo ma piuttosto l'umile studioso del "vecchio" marxismo: un
corpo vivo che si è sviluppato nei decenni e non può essere scambiato con
presunti "marxismi", cioè con un pasticcio di teorie divergenti.
Di grande interesse in questo senso è stata la pubblicazione
(in esclusiva mondiale per i tipi di Feltrinelli, nel 1997) di estratti dei
quaderni (sequestrati dai sicari boliviani del Che) che Guevara compilava in
Bolivia. Si tratta di brani di libri ricopiati e annotati. Le ultime letture
del Che testimoniano delle sue più recenti acquisizioni. Il Che legge Marx ed
Engels ma soprattutto studia, ricopia e annota Trotsky. Non solo la Storia della rivoluzione
russa - come fu da subito noto - ma anche La rivoluzione permanente
e La Rivoluzione
tradita. Si può anzi ormai affermare con certezza che Trotsky fu la sua
lettura principale nell'ultimo anno di vita e una stella che poteva servirgli
come punto di riferimento per continuare la navigazione. Della magistrale Storia
della rivoluzione russa, ad esempio, scrive: "E' un libro
appassionante (...) fa luce su tutta una serie di eventi della grande
rivoluzione che erano rimasti offuscati dal mito. Al tempo stesso, fa
affermazioni isolate la cui validità resta ancora oggi assoluta."
E non è poca cosa: sia perché in quell'epoca Trotsky era
ancora presentato dallo stalinismo come una "spia della Gestapo" (solo
pochi anni prima Palmiro Togliatti - nonostante la cosiddetta destalinizzazione
- ancora legittimava come "inevitabili" i "Processi di
Mosca" con cui era stato sterminato l'intero gruppo dirigente bolscevico
che aveva diretto la
Rivoluzione d'Ottobre); sia perché questo meticoloso studioso
di Trotsky leggeva e scriveva, tra una sparatoria e l'altra, non per un qualche
interesse accademico ma piuttosto alla disperata ricerca di quel marxismo
rivoluzionario a cui si era avvicinato progressivamente negli anni e di cui
aveva infine individuato almeno la porta d'accesso.
Non ci è dato sapere come si sarebbe conclusa questa
appassionata ricerca perché essa fu interrotta dalla pallottola di un miserabile
servo dell'imperialismo mentre il Che tentatava, in Bolivia, di sviluppare un
nuovo "fuoco" guerrigliero che potessi estendersi poi ad altri Paesi:
ignorando - con grave errore politico - la storica avanguardia operaia del
continente, i minatori boliviani, che pure cresceva a poca distanza dal suo
gruppo isolato di guerriglieri.
Un simbolo di rivolta
Nonostante i tentativi di sepoltura che fanno sudare i
becchini della rivoluzione di cui parlavamo all'inizio di questo articolo, la
figura del Che continua a comparire in ogni manifestazione, su bandiere e
magliette portate da tanti giovani che sono nati dopo la sua morte e che
talvolta ne conoscono appena l'opera ma che, in ogni caso, lo identificano come
un limpido simbolo di rivolta.
Altruismo rivoluzionario, rigore, ostinata coerenza, ironia
(che disegna quel sorriso beffardo di tante foto): sono queste le cose per cui
i giovani che si avvicinano alla lotta preferiscono l'immagine del Che ai
profeti gandhiani dell'impotenza e della perenne subalternità ai padroni del
mondo - non spiaccia ai burocrati che seduti su uno sgabello (vellutato) del
potere imperialista ci invitano a "fare la rivoluzione senza prendere il
potere".
Quanto ai marxisti rivoluzionari, come abbiamo cercato di argomentare
qui, non cercano in Guevara un riferimento teorico ma si inchinano davanti a
questo rivoluzionario che - a differenza di certi leader veri o presunti
che abbiamo incontrato e incontreremo - non si è mai lasciato afferrare dai
mille tentacoli (corruzione materiale, adulazione, ricerca narcisistica di un
proprio ruolo) con cui questa società cerca di sbarazzarsi dei suo nemici. A quarant'anni
dalla sua morte ricordiamo il militante inflessibile e modesto che scriveva
nell'ultima lettera ai figli: "ricordatevi che l'importante è la
rivoluzione, e che ognuno di noi, da solo, non vale niente."
Note
(1) In J. L. Anderson, Che. Una vita rivoluzionaria. Baldini e Castoldi, 1997, cit. a pag. 430.
(2) Per un'accurata analisi della restaurazione del capitalismo a Cuba dal punto di vista della nostra organizzazione internazionale, la Lit, si vedano gli articoli contenuti in Marxismo Vivo numero 14 del 2006.
(3) Nahuel Moreno e la Lit (o le strutture organizzate che la hanno preceduta) hanno elaborato in diversi testi una critica alle teorie guerrigliere da un punto di vista marxista. Importanti sono le Tesis sobre el guerrillerismo reperibili sul sito www.marxists.org/espanol/moreno/index.htm, da cui abbiamo tratto e tradotto questa citazione.
(4) v. il libro di Antonio Moscato che indichiamo anche nella nota bibliografica: Il Che inedito. Il Guevara sconosciuto anche a Cuba. Ed. Alegre, 2006.
(5) Si veda l'articolo di Martin Hernandez, "Cuba: Direccion Castrista: de la expropriacion a la restauracion", in Marxismo Vivo, n. 14 (la traduzione di questo brano dall'originale in spagnolo è nostra).
(6) Guevara inizia a conoscere di prima mano l'opera di Trotsky soltanto negli ultimi due anni: come documenta con varie testimonianze la monografia di Roberto Massari che citiamo nelle indicazioni di lettura (su questo aspetto si veda in particolare il capitolo "Leninismo e partito", a pag. 119 dell'edizione del '94).