Partito di Alternativa Comunista

La piazza e l'uso della forza

La piazza e l'uso della forza
Né pacifisti né avventuristi: rivoluzionari
Appunti per un dibattito
 
 
 
 
di Francesco Ricci
 
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"I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti soltanto con il rovesciamento violento di tutto l'ordinamento sociale esistente. Le classi dominanti tremino pure al pensiero di una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdervi che le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare."
(Marx-Engels, Il Manifesto del partito comunista)
 
"E dobbiamo anche attenderci che il proletariato faccia uso di questo mezzo [la forza, ndr] solo allorquando esso rappresenti l'unica via pratica per la sua avanzata, e naturalmente solo in circostanze in cui la situazione politica complessiva e il rapporto di forze garantiscano più o meno la probabilità del successo. Ma è a priori indispensabile l'aperto riconoscimento della necessità dell'uso della forza, sia in singoli episodi della lotta di classe, come per la conquista finale del potere statale; è la forza che può prestare, anche alla nostra attività pacifista, legale, la sua particolare energia ed efficacia."
(Rosa Luxemburg, La violenza, legge suprema della lotta di classe, 1902).
 
 

Recenti scontri e tensioni di piazza in alcune manifestazioni hanno riportato in primo piano un dibattito antico, quello sui comportamenti di piazza e più in generale sui temi della cosiddetta "non violenza", dell'autodifesa delle manifestazioni, eccetera. Si tratta di un dibattito viziato, a nostro avviso, da argomenti inconsistenti e per questo vogliamo qui rifare il punto sul tema.
 
Il monopolio della forza allo Stato borghese?
Anni di disastrose politiche portate avanti dalla sinistra riformista hanno riportato indietro lo stato del dibattito su questi temi. Il riformismo governista (a partire da Rifondazione comunista e poi seguendo con Sel, Sinistra Italiana, ecc.) ha in questi anni praticato la collaborazione di classe con la borghesia e i suoi governi cosiddetti "progressisti". Per legittimarsi come forza di governo Rifondazione riesumò, già dai tempi in cui era diretta da Bertinotti, teorie vecchie di secoli incentrate sulla cosiddetta "non violenza", sul "pacifismo come strategia", impregnate di un sacro rispetto per le leggi borghesi e gli apparati repressivi dello Stato, sul mettere sullo stesso piano la violenza degli oppressori e quella degli oppressi che lottano.
Avendo cercato di cancellare con cura l'analisi marxista dello Stato quale strumento di oppressione di una classe sull'altra, avendo legittimato l'idea di uno Stato "neutro", al di sopra delle classi, in funzione del proprio inserimento in questo stesso Stato borghese, il gruppo dirigente di Rifondazione ha seminato pericolose illusioni nella democrazia del capitalismo, cioè nella democrazia di banchieri e industriali.
Non c'è in questo nulla di nuovo: lo stesso riformismo classico, dalla fine dell'Ottocento e nel Novecento, per rimuovere dal proprio programma l'obiettivo storico del movimento operaio, e cioè la conquista per via rivoluzionaria del potere, premessa per espropriare le classi dominanti, ha dovuto rinnegare l'uso della violenza rivoluzionaria indispensabile in ogni rivoluzione per piegare la resistenza delle classi dominanti a essere scalzate dal loro ruolo. Ecco che si sono accesi molti ceri sull'altare della cosiddetta "non violenza". Diciamo "cosiddetta" perché in realtà questa pseudo-teoria non fa altro che legittimare il monopolio dell'uso della forza da parte dello Stato: in altre parole, la violenza non scompare (né può scomparire in una società divisa in classi), solo che gli unici legittimati a usarla sono gli apparati delle classi dominanti: gli eserciti, i vari corpi di polizia, quelli che il vecchio Engels definiva efficacemente "le bande armate a difesa del capitale". L'intero Stato capitalista riposa sulla violenza.
Per diffondere le teorie sulla "non violenza" è stato necessario non solo falsificare o cancellare il marxismo, cioè il più alto livello di elaborazione politico-programmatica raggiunto dal movimento operaio. E' stato necessario anche cercare di falsificare o rimuovere dalla coscienza delle masse quella che è la loro concreta esperienza quotidiana. Un'esperienza che insegna come gli apparati repressivi (polizia, magistratura) sono impiegati non per garantire l'ordine di un inesistente "interesse comune" ma al contrario, da sempre, sono gli strumenti con cui i capitalisti difendono la proprietà privata dei grandi mezzi di produzione e di scambio, cioè le fondamenta della società divisa in classi, dello sfruttamento e dell'oppressione ai danni della stragrande maggioranza della popolazione.
E' stato necessario anche, di conseguenza, rimuovere dalla coscienza collettiva di larghe masse il ruolo concreto di questi apparati che, in tutto il mondo e nel nostro Paese con particolare violenza, sono stati utilizzati per decenni per fermare con ogni mezzo (dalle cariche violente contro i cortei fino alle bombe nelle piazze e nelle stazioni) la crescita delle lotte operaie e giovanili.
E ancora, hanno dovuto cancellare il fatto che anche in questo Paese grandi movimenti dei lavoratori, negli anni Sessanta e Settanta, ma non solo, non avrebbero potuto crescere se non si fossero organizzati per difendersi, se non fossero stati in grado di contrastare e in tanti casi anche contro-attaccare le bande armate del padrone, pensiamo alle battaglie di Valle Giulia, di Corso Traiano a Torino, di Porto Marghera...
Anche tutte le falsità sugli apparati "deviati" hanno sempre svolto questa funzione: far credere che esistano apparati repressivi legittimi in cui, talvolta, si insinua qualche mela marcia. Cosa smentita da tutta la storia repubblicana che ha visto, al contrario, sempre coinvolti i più alti vertici degli apparati e dei governi in queste attività repressive: dagli anni Quaranta a oggi, passando per la "notte cilena" di Genova nel 2001.
Fa parte del lavoro svolto dai dirigenti riformisti anche l'aver teorizzato l'inutilità dei servizi d'ordine dei movimenti e dei partiti per difendere le manifestazioni da polizia e fascisti, così come l'aver messo alla berlina l'antifascismo militante, cioè il contrasto attivo ai gruppi fascisti. Al posto dell'antifascismo militante si invoca periodicamente la messa fuori legge dei gruppi fascisti delegando quindi il compito allo Stato borghese. Quello stesso Stato che ha più volte impiegato i fascisti contro il movimento operaio negli anni del secondo dopo-guerra, così come nel Ventennio mussoliniano la borghesia impiegò il regime fascista per garantire i suoi profitti e schiacciare nel sangue i partiti e i sindacati del movimento operaio.
 
L'avventurismo, reazione infantile al riformismo
Di fronte al citato lavoro delle direzioni politiche e sindacali riformiste si è sviluppata e riprende spazio in questi anni a sinistra, specie tra i giovani, una risposta che, per usare un'espressione di Lenin, potremmo definire "infantile". E' portata avanti e più o meno teorizzata in particolare da alcuni centri sociali, specie quelli del filone "Autonomia-contropotere". I centri sociali più noti di questa area sono il Crash! di Bologna e l'Askatasuna di Torino, e altri con cui si relazionano anche attraverso il sito info.aut.
Questi compagni - che, pur essendo in totale divergenza politica con le loro tesi, noi da sempre difendiamo e difenderemo dal nemico di classe e dalla repressione - sostengono posizioni e una pratica che va criticata. E va criticata non dal punto di vista (che ci è estraneo) della "non violenza" teorizzata dai riformisti ma dal punto di vista esattamente opposto: quello dei rivoluzionari che vogliono rovesciare questa società e vogliono distruggere questa falsa democrazia (borghese) per costruire una democrazia socialista, cioè il dominio della classe operaia.
In cosa consistono queste teorie e pratiche e perché le critichiamo? Sintetizziamo in quattro punti le questioni strategiche che ci distinguono.
Prima una precisazione: ci riferiamo in questo articolo non ai centri sociali in generale, non potendosi parlare di una posizione comune a tutti, dato che si va da quelli che partecipano direttamente allo schieramento riformista-governista (come è il caso di Je so' pazzo di Napoli, presentatosi insieme a Rifondazione comunista come "Potere al popolo") a quelli anarchici e/o vicini all'Autonomia. Il riferimento è dunque, come detto, a quelli che appaiono più radicali e in rottura col riformismo e, per necessità, faremo alcune generalizzazioni, senza entrare nel merito di alcune sfumature differenti che pure esistono tra centri sociali diversi.
 
1) La rimozione dell'obiettivo strategico del potere
Le posizioni che stiamo criticando partono tutte (così come fa il riformismo) dalla rimozione dell'obiettivo strategico per cui si battono i rivoluzionari: la conquista del potere da parte della classe operaia, l'instaurazione di un governo operaio (dittatura del proletariato) per espropriare il grande capitale.
I loro obiettivi sono molto più limitati, di fatto riformisti (anche se non sono vissuti come tali): l'occupazione di spazi, che in questi casi sottintende la possibilità (totalmente irrealistica) di una "liberazione di spazi" all'interno del capitalismo. Non a caso tutta questa area si rivendica come "antagonista", il che presuppone il riconoscimento, nei fatti, di questo sistema come "protagonista", non rovesciabile. Lo stesso concetto di "contropotere" (che compare persino nella loro simbologia) è un riconoscimento involontario del potere borghese come insostituibile e si alimenta dell'illusione che sia possibile un "contropotere" senza togliere il potere alla borghesia, senza assumere il controllo della economia e quindi di un altro Stato.
 
2) L'assenza di un ragionamento di classe e per la classe
Queste posizioni rimuovono ogni analisi di classe, marxista, della società e per questo rifiutano (esplicitamente o implicitamente) di riconoscere la classe operaia come il soggetto potenzialmente rivoluzionario.
Il loro obiettivo è unire un indistinto soggetto "antagonista", di fatto pluri-classista, che va da settori della piccola-borghesia fino al sotto-proletariato. In questo riprendono (spesso inconsapevolmente) teorie anarchicheggianti risalenti a Bakunin.
Per questo la loro attività principale consiste nella occupazione di spazi per costruire "zone liberate", e nella (peraltro meritoria) lotta agli sfratti. Mentre considerano secondaria una lotta di egemonia dentro alla classe lavoratrice, dentro e davanti alle fabbriche, ai luoghi di lavoro.
 
3) Il rifiuto del tema del partito e dell'Internazionale
Avendo rimosso la questione del potere, di conseguenza questi settori rimuovono lo storico problema di costruire, dentro alla classe, e a partire dalla sua avanguardia di lotta politica e sindacale, il soggetto politico della trasformazione: il partito rivoluzionario e l'Internazionale. Non a caso rifiutano "la politica" e i "partiti" (mettendo nello stesso sacco i partiti della classe avversaria, i partiti riformisti e quelli rivoluzionari). E, sempre non a caso, il loro internazionalismo non va oltre la solidarietà (pur corretta) con le lotte di altri Paesi: cioè appunto non contempla quello che per i rivoluzionari è il senso stesso dell'internazionalismo, la costruzione di un partito internazionale.
 
4) L'incomprensione del programma transitorio
Ignorando la questione del potere e del partito per conquistarlo, così come l'analisi di classe marxista, è estranea a queste posizioni ogni concezione di un programma per elevare la coscienza della classe operaia e del proletariato per costruire un ponte tra le lotte politiche e sindacali immediate della classe e la conquista rivoluzionaria del potere, per guadagnare le masse lavoratrici a questa prospettiva con un paziente lavoro di egemonia politica.
 
Le pratiche di piazza
Riassunte schematicamente le differenze strategiche con le posizioni che stiamo esaminando, possiamo ora arrivare alle questioni di tattica e pratica di piazza, dato che queste ultime sono il prodotto di una concezione generale. Riassumiamo le tre differenze principali che abbiamo con questi compagni sul terreno pratico:
a) Dato che il nemico è per loro non la classe dominante e di conseguenza lo Stato come strumento del suo dominio ma è lo Stato e "il potere" come un assoluto (in questo riemerge, anche se confusamente, un'eredità dell'anarchismo), rifiutano la conquista del potere e la rottura dello Stato e l'obiettivo principale diventa il celerino o il carabiniere, che incarna la parte visibile di quell'ordine di cui ci si vuole "antagonisti". Di qui la centralità che viene assegnata allo scontro di piazza con gli apparati repressivi: non come necessario momento di autodifesa delle lotte del proletariato ma come fatto in sé. L'obiettivo di ogni manifestazione non è più allora quello di elevare il livello della coscienza di classe attraverso la propaganda e l'agitazione nella prospettiva della necessaria rottura rivoluzionaria dello Stato ma piuttosto quello di elevare lo scontro "militare" con il plotone di poliziotti che ci si trova di fronte.
Va precisato che esiste in qualche caso una versione più raffinata di questa posizione che prevede una teorizzazione più o meno compiuta secondo cui sarebbe appunto lo scontro di piazza col poliziotto la leva attraverso cui alzare ("stimolare") la coscienza di chi lotta. Il che, come detto sopra, prescinde quindi dall'attività per portare con la propaganda una coscienza socialista nelle lotte.
b) Dalla teoria sopra riassunta, deriva come corollario una sfiducia nella forza delle masse e una forma di "sostituzionismo": la classe (o meglio chi lotta, dato che le classi non sono contemplate nel ragionamento) è considerata in generale incapace di comprendere questa presunta necessità della scaramuccia di piazza con la polizia. Da questo deriva che invece di cercare di favorire insieme alla crescita della coscienza anche forme di autodifesa organizzata del movimento di massa e, in relazione stretta con ciò, un adeguato servizio d'ordine che tuteli le manifestazioni, tutto finisce col ruotare attorno alla costituzione di una presunta avanguardia il cui compito non è sviluppare la coscienza socialista in ogni lotta ma organizzarsi, con caschi e bastoni, per scatenare "scintille" nelle piazze.
c) Da tutto ciò infine deriva che le forme dello stare in piazza e le forme di lotta non sono considerate come una scelta la cui titolarità spetta ai lavoratori (considerati incapaci di comprendere ciò che serve), non vanno decise democraticamente dal movimento in lotta, ma vanno di fatto imposte a un corteo da un gruppo di presunta "avanguardia" che rifiuta ogni democrazia operaia e che rompe il corteo e cerca lo scontro o cerca di condurre il corteo allo scontro con i celerini, imponendo la sua linea. Per chi ha queste posizioni il bilancio di una manifestazione non consiste in quanti lavoratori sono scesi in sciopero e in piazza, di quanto si è elevato politicamente il livello delle rivendicazioni, ma nel fatto che si concluda con uno scontro con quello che è considerato il vero nemico e che in realtà è solo il cane da guardia del padrone.
 
Le conseguenze di certe pratiche
Gli effetti di queste teorie e pratiche sono sotto gli occhi di tutti: movimenti di lotta di lavoratori, magari ancora embrionali, vengono portati (o si cerca di portarli) allo scontro di piazza senza interesse per il livello di coscienza del movimento e senza interesse per dotare il movimento di una struttura di autodifesa (appunto perché si ritiene che questo compito spetti a una presunta avanguardia). Dato che non viviamo, almeno in Italia, in una stagione di grandi lotte di massa, ma purtroppo al momento ci sono solo pochi movimenti di lotta, tra loro isolati, la conseguenza più diretta di tutto questo è l'inverso di quanto si vorrebbe: lo scontro coi celerini invece di far sviluppare il movimento, il più delle volte lo fa disperdere e rifluire. Senza contare la coda di denunce e processi che in genere, colpendo giovani militanti privi di esperienza (in qualche caso alle loro prime manifestazioni di piazza), produce la stessa demoralizzazione di queste "avanguardie" che, come abbiamo osservato in tanti casi, finiscono con l'essere le prime a rifluire.
C'è da aggiungere che spesso in questo modo si cade esattamente nella trappola degli apparati repressivi che preferiscono chiaramente scontrarsi con movimenti impreparati e (come ha spiegato a suo tempo l'ex ministro degli Interni Cossiga) a tal fine infiltrano movimenti e cortei per provocare lo scontro specie nel momento in cui fa comodo a loro. Non a caso a Genova nel 2001 varie foto hanno immortalato presunti "black block" che uscivano già mascherati e bardati direttamente dalle caserme per rompere qualche bancomat e facilitare il lavoro poliziesco di rompere il corteo. Una cosa simile è successa, in tempi più recenti, in occasione della manifestazione No Expo a Milano nel 2015.
Come conclusione permanente di questi episodi inizia il balletto dei "distinguo" della sinistra riformista che coglie l'occasione per fare un'altra campagna di diseducazione sulla "non violenza", che invita ad andare ai cortei con le mani alzate, ecc.
 
Una radicalità solo apparente
Come abbiamo cercato di dimostrare, in conclusione, le posizioni che abbiamo criticato fioriscono specie tra i giovani come sotto-prodotto dei disastri provocati dal riformismo governista e pacifista. Si presentano ai giovani come l'alternativa radicale al riformismo ma purtroppo finiscono col convogliare (e poi disperdere) una preziosa volontà di ribellione di tanti giovani in un vicolo cieco. Cieco perché strategicamente non rivoluzionario, politicamente minimalista, cieco anche perché tatticamente avventurista. La radicalità reale di giovani che vogliono cambiare il mondo finisce col tradursi, di là dalla loro volontà, in una radicalità solo apparente, che non disturba realmente questo sistema sociale putrido perché non contribuisce a creare le condizioni perché le masse operaie possano rovesciarlo.
Come abbiamo già detto, queste nostre critiche esplicite, senza diplomazie, non significano per noi la rinuncia a difendere dalla repressione dell'avversario di classe e dalla canea dei benpensanti i compagni che sostengono le posizioni che critichiamo. Li abbiamo difesi sempre e continueremo a farlo ma nella chiarezza del confronto e con l'ambizione di convincere, certo non solo con i testi ma anche con la nostra militanza quotidiana nelle lotte della nostra classe, qualche compagno e compagna a continuare a lottare ma imboccando l'unica strada utile per farlo: quella per guadagnare le masse a una prospettiva rivoluzionaria.
 

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