Partito di Alternativa Comunista

A settant'anni dal 1945

A settant'anni dal 1945
La Resistenza operaia:
una rivoluzione tradita
dallo stalinismo
 
 
 

di Francesco Ricci
 

 

 

la_resistenza_operaia_25_aprile

 

 
(Spezzone del Pdac, aperto dalle compagne,
 a una manifestazione per il 25 Aprile a Milano)
 

 

 

1. Il primo vero colpo al fascismo: gli scioperi operai

In genere la crisi del fascismo viene presentata come il prodotto della sconfitta militare inferta dagli Alleati e della crisi interna del regime. Effettivamente dal luglio 1943 gli anglo-americani conquistano la Sicilia e iniziano a risalire lentamente la penisola; e il 25 luglio il Gran consiglio dei fascismo approva a maggioranza l'ordine del giorno Bottai-Grandi- Ciano che liquida Mussolini, arrestato poche ore dopo per ordine del re che lo sostituisce con Badoglio. E' il tentativo di salvare il regime usando Mussolini come capro espiatorio. Un tentativo sostenuto non solo dalla monarchia e dalle gerarchie militari e dal Vaticano ma anche e soprattutto da quei padroni (Agnelli, Pirelli, ecc.) che, dopo aver fatto profitti giganteschi grazie al regime fascista, cercano di cambiare cavallo in corsa. Badoglio, già distintosi come sterminatore durante l'aggressione coloniale all'Abissinia, comandante delle bande fasciste in Spagna, sostituisce Mussolini.
Questo primo governo Badoglio dura 45 giorni e cerca di riverniciare la vecchia struttura fascista (di cui sono conservati la gran parte dei dirigenti, nonostante il Partito nazionale fascista venga formalmente disciolto) mantenendone inalterato il carattere anti-operaio (reprime nel sangue le manifestazioni per la caduta di Mussolini: morti e centinaia di feriti ovunque). Il nuovo governo, mentre proclama la fedeltà ai nazisti, inizia le trattative con gli Alleati che porteranno alla firma dell'armistizio (il 3 settembre, ma reso pubblico l'8) e alla precipitosa fuga del governo e del re in Puglia, lasciando sgretolare l'intero apparato statale e le forze armate davanti alle truppe tedesche che occupano il Paese mentre i generali o scappano o preferiscono cedere le armi agli invasori piuttosto che agli operai. Quegli operai che organizzano la prima barriera e che cercano di difendere varie città, da Roma a Piombino (che resiste vari giorni infliggendo 600 morti ai tedeschi) fino a Napoli, dove il proletariato dà vita alle "quattro giornate" - dal 27 settembre - che liberano la città prima dell'arrivo delle truppe dell'imperialismo anglo-americano.
Ma la storiografia prevalente tende a sminuire il peso che invece ebbero gli scioperi operai e che fu in realtà determinante nella caduta del governo di Mussolini (tanto di quello regio, intendiamo, come di quello repubblichino).
Ci riferiamo agli scioperi (intermittenti) che iniziano il 5 marzo del 1943 alla Fiat di Torino. A Mirafiori, dove sono concentrati 21 mila operai, parte il primo sciopero contro il carovita e per la pace. Due settimane dopo lo sciopero si estende a Milano (Falck e Pirelli) e ai principali centri operai del Nord.
Il regime cerca prima di smorzare la lotta con una dura repressione (800 operai arrestati, pestaggi) poi, non riuscendovi, governo e padronato concedono aumenti salariali, nella speranza di far rifluire la lotta. Ma gli scioperi proseguiranno nel novembre '43 e di nuovo nel marzo '44 quando, dall'1 all'8 del mese, è sciopero generale in tutta l'Italia occupata dai tedeschi.
Sono gli scioperi della primavera '43 a suonare la prima campana a morto per il regime; e saranno gli scioperi dell'autunno '43 e del '44 a rafforzare la Resistenza e a preparare l'insurrezione dell'aprile '45.
Non furono scioperi "spontanei" (a differenza di quanto spesso si legge e come dimostra il fatto che la polizia fascista già tre settimane prima fosse in allerta per volantini clandestini che giravano in fabbrica): in essi ebbero un ruolo di primo piano i quadri del Pci che, dal '42, andava ricostruendosi nella gran parte delle provincie del Paese (dal luglio '42 riprendeva la pubblicazione dell'Unità) e che soprattutto riorganizzava i nuclei operai nelle fabbriche: nerbo dello sciopero furono gli 80 militanti che il Pci aveva a Mirafiori. Mentre il sostegno di massa agli scioperi era la risposta della classe operaia non solo a Mussolini, e al suo regime anti-operaio e anti-comunista, ma anche a quella grande borghesia che nel corso del Ventennio aveva visto moltiplicare i propri profitti mentre i salari avevano perso oltre il 20% del potere d'acquisto.
Il fascismo era stato - esattamente come lo analizzò e definì Trotsky - un movimento di massa della piccola borghesia impoverita dalla crisi (dunque non una invenzione a tavolino della grande borghesia) che, in assenza di una egemonia proletaria, veniva utilizzato dalla grande borghesia (che vi faceva ricorso come un ammalato di denti fa ricorso al dentista) come ariete contro le organizzazioni del movimento operaio, sovrapponendo al programma confuso (o meglio, inesistente) del fascismo il programma degli Agnelli e dei Pirelli in Italia, dei Krupp e delle grandi famiglie del capitalismo tedesco in Germania.
Così, quando il 9 settembre si costituisce la Repubblica di Salò, un protettorato tedesco guidato da Mussolini (liberato il 12 settembre dalle Ss), che comprende tutto il Nord e inizialmente include fino al Lazio e al Nord della Campania, nascono le prime bande partigiane.
Le prime scarse centinaia che prendono il fucile sono in gran parte operai. Le diverse brigate (Garibaldi, dirette dal Pci; Matteotti, dirette dal Psi; Giustizia e libertà, dirette dagli azionisti -1) arriveranno a comprendere, complessivamente, circa 250 mila militanti. La stragrande maggioranza è composta da operai (ma con una robusta presenza anche di braccianti salariati); tra loro una netta maggioranza è composta dai comunisti (includendo non solo i militanti del Pci ma anche militanti di altre organizzazioni o simpatizzanti) e la quasi totalità (se si fa eccezione per le scarse brigate legate a partiti borghesi) si riconosce nei partiti della sinistra e più in generale (con vari gradi di confusione, chiaramente) crede nel socialismo.
Sono insomma gli operai - ecco il senso di questa nostra introduzione - la spina dorsale della cosiddetta Liberazione. Sono i comunisti (non solo quelli del Pci, come vedremo in seguito) e più in generale i lavoratori che lottano per il socialismo a scrivere la storia del Paese dal 1943 al 25 aprile; e poi ancora dal '45 al '48. E la gran parte di questi combattenti è convinta, in un modo o nell'altro, che la Resistenza sia solo l'inizio della rivoluzione.
 
2. La "svolta di Salerno" fu ideata a Mosca
Si può dire che l'impalcatura di tutta la storiografia di marca Pci giri attorno alla "svolta di Salerno". Gli stessi eredi di quella scuola storica di falsificazione hanno continuato (anche quando, abbandonati i panni riformisti, sono trasmigrati nel Pd) a sostenere la presunta "originalità" della "svolta" di Togliatti. Capita così che oggi uno storico stalinista non pentito, come Luciano Canfora, e uno storico ex stalinista approdato al Pd, come Giuseppe Vacca, convergano nel cercare di difendere ancora il mito di una rottura innovativa del togliattismo rispetto allo stalinismo.
I trotskisti hanno per decenni sostenuto che non di "svolta" si poteva parlare ma dello sviluppo della politica stalinista in Italia. Il togliattismo fu non solo interprete (magari astuto, come vorrebbero i vari Canfora che salutano in Togliatti chi attenuò, con realismo, la politica di Stalin e persino la contrastò) ma artefice dello stalinismo in Italia. La politica seguita dal Pci - abbiamo argomentato per anni - era la logica continuazione della politica dei "fronti popolari" e, più in generale, dell'incessante e gigantesco lavoro che lo stalinismo fece per impedire la rivoluzione in altri Paesi.
L'elemento di novità, dopo il crollo dello stalinismo e l'apertura degli Archivi di Mosca, sono stati i quintali di documenti che hanno provato che i fatti storici davano ragione ai trotskisti (il che, inutile dirlo, non significa che gli storici stalinisti o ex stalinisti non continuino a scrivere come se niente fosse, fingendo di non essersene accorti).
Tra il tanto materiale pubblicato in lingua italiana ci limitiamo a rimandare alla lettura di Togliatti e Stalin della Aga Rossi e di Zaslavsky e di Dagli archivi di Mosca, curato da Pons e Gori (2). Il primo ha una impostazione reazionaria, il secondo è curato da dirigenti dell'Istituto Gramsci (prima diretto dal Pci, ora dal Pd): ma di là dalla diversa impostazione e lettura dei fatti, entrambi presentano decine di documenti recuperati negli archivi russi che provano ormai senza ombra di dubbio che la "svolta di Salerno" fu una invenzione propagandistica di Stalin.
Già dal dicembre 1941, nell'incontro tra Stalin e il ministro degli Esteri britannico Eden, si decide che nel dopoguerra l'Italia rimarrà sotto la sfera di influenza occidentale. Questa collocazione del Paese fu confermata nelle più note conferenze di Teheran (novembre-dicembre '43), Yalta (febbraio '45) e Potsdam (luglio-agosto '45). Per anni gli stalinisti hanno negato, contro ogni evidenza, che in questi incontri si fosse spartito il mondo in zone di influenza.
Eppure quando nell'ottobre del '44 si incontrano Stalin e Churchill, quest'ultimo chiede rassicurazioni sull'orientamento del Pci. Stalin risponde di non temere: Togliatti "è un uomo prudente, non un estremista" e per questo, continuano le note stenografiche della segretaria che assistette al colloquio, "non si sarebbe imbarcato in un'avventura" (3).
Di più, oggi sappiamo con esattezza che la linea della cosiddetta "svolta" fu definita nei minimi dettagli da Stalin stesso. E' Pons a riconoscerlo (4): "Il passo decisivo della 'svolta' venne compiuto non soltanto con il consenso di Stalin (...) ma tramite il suo intervento." Pons si riferisce al fatto che Togliatti, pur condividendo tutta l'impostazione generale (su questo torneremo tra poco), aveva inizialmente articolato la linea con qualche differenza: non pensava di spingere il suo partito fino a sostenere Badoglio e la monarchia; pensava di imporre l'abdicazione del re e la sostituzione di Badoglio con una figura borghese meno compromessa col fascismo. Questa era la linea che sottopose con un testo a Dimitrov (segretario del Comintern) e che quest'ultimo fece vedere a Molotov (vicepremier). Poi nella notte tra il 3 e il 4 marzo 1944 Stalin dà udienza a Togliatti, alla presenza di Molotov, ed è lì che cade la pregiudiziale antimonarchica. La bozza scritta da Togliatti è cestinata e si concorda una diversa strutturazione della medesima linea di compromesso di classe con la borghesia. Una linea che, nella sua articolazione (sostegno a Badoglio e rinvio della questione istituzionale relativa alla monarchia) mise inizialmente in difficoltà gli stessi dirigenti in Italia del Pci, che furono costretti a una precipitosa modifica dell'atteggiamento fin lì seguito.
 
3. Svolte e controsvolte dello stalinismo
E' interessante notare come documenti e prove su quell'incontro notturno in Russia, tra Togliatti, Stalin e Molotov, rendano inutilizzabili, ripetiamolo, centinaia di libri scritti da storici di area Pci per decenni, facendo a pezzi il mito di un Togliatti ideatore della "via italiana al socialismo", ispirato da Gramsci, ecc.
Come i trotskisti hanno sempre sostenuto, viceversa, l'origine della politica del Pci in Italia (ma lo stesso potrebbe dirsi per il Pcf francese, ecc. -5) va ricercata parecchi anni prima, nel 1935, al VII Congresso dell'Internazionale comunista, ormai docile strumento di Stalin.
Dopo la politica del "socialfascismo", che aprì le porte a Hitler, come aveva detto per tempo Trotsky, politica che consisteva nel porre sotto lo stesso segno socialdemocrazia e fascismo e dunque nel rifiutare ogni fronte difensivo con i socialisti contro i fascisti, lo stalinismo sperimentava il più brusco e decisivo dei suoi zig-zag. Appunto in quel congresso dell'Internazionale comunista, la relazione Dimitrov capovolgeva la linea e, fingendo di ritornare al "fronte unico" di leniniana memoria (che tuttavia era una tattica di fronte di classe, volta a smascherare i riformisti), lo "estendeva" includendo per la prima volta la possibilità che i comunisti sostenessero governi borghesi. Si trattava, come è ovvio, non di una "correzione" ma dell'esatto rovesciamento delle posizioni leniniane e anzi la negazione dello stesso fondamento marxista dell'indipendenza di classe del proletariato dalla borghesia e dai suoi governi quale pre-requisito di qualsivoglia politica rivoluzionaria. Dimitrov si scaglia contro "i due opportunismi": quello definito "di destra" che aveva la pretesa di governare sempre con la borghesia; e... quello "di sinistra", cioè di coloro che ritengono che i comunisti possano andare al governo solo dopo la rivoluzione e la presa del potere. Per... contrastare questi due opportunismi (il primo era in realtà coincidente col riformismo che, in ogni epoca, predica la collaborazione di governo con la borghesia; il secondo era semplicemente la descrizione... del leninismo), Dimitrov (e Stalin) teorizzano l'avvio dei "fronti popolari": che altro non sarebbero stati, appunto, che la consacrazione dello stalinismo come agente della reintroduzione del riformismo e del menscevismo nel movimento operaio. Per i Paesi europei si riesumano le posizioni mensceviche della rivoluzione a tappe: prima la rivoluzione "democratica", poi, in un imprecisato futuro, la "tappa" socialista.
La linea del VII Congresso costituì l'asse di fondo di tutta la politica stalinista (e dunque anche togliattiana) degli anni seguenti, pur nelle svolte e controsvolte imposte, in superficie, dallo stalinismo, per le sue esigenze immediate. La linea della collaborazione di classe presidiava infatti tanto il periodo (dal '35 al '38) in cui l'Urss di Stalin identificava il nemico principale nell'imperialismo tedesco; tanto il periodo (dall'agosto '39 al '41) in cui stringeva con Hitler il patto Molotov-Ribbentropp e identificava in Francia e Gran Bretagna i principali nemici. Così pure la linea di fondo non mutava quando, dopo l'aggressione di Hitler alla Russia, si decideva l'alleanza con "le potenze democratiche amanti della pace" (Gran Bretagna e Usa) per dare vita alla "coalizione dei popoli liberi" in lotta non più contro il capitalismo e la borghesia ma solo contro il fascismo.
Fino ad arrivare, nel maggio 1943, dopo aver utilizzato l'Internazionale come strumento per imporre ai Pc di tutto il mondo questa linea di capitolazione, a scioglierla in segno di pacificazione con l'imperialismo "democratico".
Subito dopo il VII Congresso iniziarono i Processi di Mosca, in cui lo stalinismo cercava di farla finita con quanto restava del gruppo dirigente bolscevico e in particolare con il pericolo più temuto perché riconosciuto come unica potenziale alternativa: il bolscevismo di quei giorni incarnato in Trotsky e nella corrente internazionale da lui diretta.
Pubblico ministero in quei processi era Vyšinskij, ex menscevico, autore dell'ordine di cattura per Lenin voluto dal governo provvisorio nel 1917, poi passato con i bolscevichi vincitori e quindi arrivato ai massimi vertici del ministero degli Esteri col compito particolare di seguire proprio lo sviluppo del Pci.
 
4. Che cosa fu la "svolta" di Salerno
Rientrato in Italia (il 27 marzo 1944) Togliatti deve riorientare il partito: un po' come Lenin quando rientrò in Russia dalla Svizzera nella primavera 1917. Ma mentre Lenin, con le "Tesi di Aprile", riaffermava la piena indipendenza di classe dei bolscevichi dalla borghesia e dunque l'opposizione al governo borghese "di sinistra", Togliatti, al contrario, schierava il partito a difesa del governo borghese dell'ex avanzo fascista Badoglio. Peraltro questo governo aveva già ricevuto il riconoscimento dalla Russia (primo Paese a farlo) il 13 marzo 1944, in logica continuità con quanto deciso nell'incontro notturno tra Togliatti e i dirigenti russi di cui abbiamo parlato sopra.
Ecco così che il 24 aprile 1944 il Pci entrava nel secondo governo Badoglio (che governava il cosiddetto Regno del Sud col sostegno di Pci, Psi, azionisti, Dc e liberali), dopo che già sull'Unità Togliatti aveva così riassunto la linea: "(...) non possiamo oggi ispirarci ad un sedicente interesse ristretto di partito, o ad un sedicente interesse ristretto di classe (...). E' il Pc, è la classe operaia che deve impugnare la bandiera degli interessi nazionali che il fascismo e i gruppi che gli dettero il potere hanno tradito." (6).
Concretamente la svolta comportava un preciso orientamento rispetto alla Resistenza che si andava strutturando nella parte del Paese occupata dai nazisti e sottoposta al governo mussoliniano di Salò. Le direttive che Togliatti invia alle formazioni del Pci nell'estate del 1944 non lasciano spazio a dubbi: la lotta partigiana non ha lo scopo "di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista e comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo" (7).
Non si trattava, come vedremo, di una linea facile da imporre: perché la Resistenza si andava orientando in ben altra direzione.
 
5. Deviare la Resistenza per preservare gli interessi della burocrazia
Ma perché lo stalinismo aveva necessità di imporre questa linea di capitolazione?
Forse, come è stato spesso detto, in ossequio alla "teoria" della rivoluzione in un Paese solo, da molti presentata come "più realistica" di fronte a presunte utopie di rivoluzione mondiale di Trotsky? Non è questa la sede per approfondire l'argomento. Ci basti qui dire che quella cosiddetta "teoria" (di cui lo stesso Stalin, insieme a tutto il gruppo dirigente bolscevico, avrebbe riso fino a qualche mese prima di proclamarla, essendo in termini marxisti una bestialità) fu piuttosto la copertura teorica degli interessi della casta burocratica cresciuta in Russia nel periodo del riflusso della rivoluzione. Quella casta (di cui Stalin fu in definitiva solo l'interprete) legava i propri privilegi materiali all'isolamento della rivoluzione russa. Di quell'isolamento non era inizialmente colpevole: era stato determinato dal tradimento operato dalla socialdemocrazia che aveva fatto fallire le rivoluzioni in Italia (nel "biennio rosso") e in Germania (nel '18 e nei primi anni Venti). Di quell'isolamento si fece poi fautrice attiva perché, nata nell'isolamento, solo nell'isolamento la burocrazia parassita poteva proliferare. E' da qui (e non da qualche errore o da un presunto "realismo") che nacque la successiva politica della Russia e dell'Internazionale dominata dallo stalinismo: tutta mirata a demolire ogni processo rivoluzionario per preservare gli interessi anti-operai di caste burocratiche che trovavano il loro alimento nello Stato burocratizzato russo e che via via troveranno, per quanto riguarda i partiti comunisti stalinisti del resto del mondo, il loro alimento nella preservazione dello Stato borghese dei rispettivi Paesi.
La burocrazia del Pci (così come degli altri partiti stalinisti) agì in stretta solidarietà d'interessi, in una prima fase, con la burocrazia moscovita. Togliatti, tra i massimi dirigenti stalinisti europei (nonché dirigente a Mosca della propaganda sui Processi di Mosca, ispiratore della politica stalinista di massacro del Poum in Spagna, responsabile talvolta diretto talvolta indiretto dell'uccisione dei migliori quadri rivoluzionari del mondo, e tra loro di Pietro Tresso) faceva parte di quel bubbone burocratico. A partire dagli anni della ricostruzione dello Stato borghese in Italia, poi, la burocrazia del Pci crebbe alimentando interessi propri strettamente legati a quelli del capitalismo italiano. Più crescevano quegli interessi, indipendenti dalla Russia, più si allontanava dallo stalinismo russo fino a partecipare al processo di progressiva socialdemocratizzazione del Pci (peraltro avviato, come abbiamo visto, già dalla metà degli anni Trenta con l'accettazione della collaborazione di classe e di governo con la borghesia). Processo di socialdemocratizzazione che divenne poi, dopo il crollo dell'Urss stalinista, evoluzione verso l'approdo di un partito pienamente liberale e borghese (il Pd), una volta tagliate le radici operaie.
Ecco perché per imporre la linea di collaborazione di classe decisa dallo stalinismo per mantenere l'isolamento della rivoluzione russa e così preservare la burocrazia dall'ondata di altre rivoluzioni che l'avrebbero spazzata via, il Pci doveva deviare il treno della Resistenza verso un binario morto. Lo fece usando anche l'autorità e il prestigio dell'Urss.
Bisognava in primo luogo imbrigliare la Resistenza, cercando in ogni modo di smussarne il carattere di classe. E data la assoluta prevalenza di sentimenti comunisti tra i partigiani si arriva persino ad attenuare la simbologia delle brigate: precise direttive invitano ad usare meno fazzoletti rossi, meno stelle rosse, a non usare nomi che si rifacciano alla tradizione comunista, a non salutarsi col pugno chiuso. Le stesse brigate Garibaldi si chiamano così perché il riferimento al Risorgimento è più consono all'orientamento che si vuole imporre: non si potrebbe certo chiamarle brigate Marx o brigate Lenin.
Su Rinascita (che comincia le sue pubblicazioni nel giugno del 1944) si "arricchiscono" gli insegnamenti dei "maestri", e cioè di Marx-Engels-Lenin-Stalin (sic), con richiami al Risorgimento italiano: da Garibaldi a Pisacane. Per legittimare la politica di collaborazione di classe con i cattolici della Dc, il "partito nuovo" di Togliatti rivaluta la cultura cattolica (8).
Ovviamente il lavoro da fare non è però solo sui simboli e sugli aspetti culturali: bisogna paradossalmente liberarsi da un ruolo "eccessivo" che il partito si è guadagnato sul campo nella Resistenza: per questo è il Pci a pretendere che la direzione dei Cln (che, in votazioni proporzionali, avrebbe guadagnato quasi ovunque) sia distribuita in forma paritetica tra tutti i partiti, comprese le formazioni borghesi, praticamente inesistenti sul campo.
 
6. Le opposizioni alla linea togliattiana
La collaborazione di classe, che il Pci già praticava, come abbiamo visto, da ben prima della "svolta di Salerno", aveva già dalla fine del '43 stimolato la nascita di vari gruppi di opposizione.
La più clamorosa opposizione è quella che nasce a Napoli nell'ottobre 1943 quando la federazione napoletana si spacca in due e una parte consistente del partito costituisce una federazione contrapposta a quella ufficiale: la federazione di Montesanto (dal nome della zona in cui prende sede) su posizioni genericamente classiste, per quanto confuse. La rottura durerà solo due mesi e già a dicembre la gran parte degli scissionisti farà rientro nel Pci: pur lasciando traccia in settori di militanti che in seguito si organizzeranno diversamente.
Qualcosa di analogo succede a Torino dove duemila militanti (poco meno della metà della federazione del Pci), in gran parte operai della Fiat (dove Stella rossa arriverà ad organizzare ben 500 operai), rompono col partito nel maggio '44 e danno vita a Stella rossa che si caratterizza per un rifiuto del fronte interclassista voluto dal partito e consacrato dalla "svolta di Salerno" di poche settimane prima. Si chiede una linea che faccia i conti non solo col fascismo e con l'occupante tedesco ma anche con quella borghesia che aveva usato il fascismo come pugno di ferro contro gli operai. Non credano i borghesi, si scrive sul giornale Stella rossa, di ingannarci parlando di patria e di concordia nazionale; sappiamo che vogliono solo continuare lo sfruttamento di classe. Anche questa scissione sarà riassorbita poco dopo (agli inizi del '45, qualche mese dopo l'uccisione - con ogni probabilità per mano stalinista - di Vaccarella, il principale dirigente).
Tra i tanti gruppi che rompono dal Pci o che si formano alla sua sinistra, il più interessante è sicuramente il Movimento comunista d'Italia (McdI) o Bandiera rossa, dall'organo che pubblica. Bandiera rossa nasce a Roma e arriva a raggruppare nella capitale circa 2500 attivisti, cioè quanti la federazione del Pci (nel '45 si estenderà a tutto il Sud, aprendo sezioni anche nel Centro-Nord e arrivando ad organizzare alcune migliaia di attivisti).
Bandiera rossa, organizzazione composita, con gruppi provenienti dal Pci, dall'anarchismo, dal socialismo, sostiene posizioni di classe e intende la Resistenza come inizio della rivoluzione. Alla Resistenza partecipa in prima fila: basti dire che durante l'occupazione nazista di Roma lascerà sul campo circa 200 morti (cioè tre volte quelli sofferti dal Pci nella capitale); e che dei 335 massacrati alle Fosse Ardeatine, 52 appartenevano a questo movimento. La maggioranza dei militanti rientrerà nel Pci uno o due anni dopo la Liberazione.
Chiaramente la storiografia di marca Pci ha sempre rimosso o dedicato poco spazio a queste formazioni perché la loro stessa esistenza contrasta con la lettura che si vuole dare: queste organizzazioni e la loro consistenza sono la riprova, infatti, che la linea di collaborazione di classe fu imposta dal Pci deviando la inclinazione di classe che andava assumendo nella lotta contro i fascisti il proletariato. Togliatti e il Pci dovettero deviare il fiume della lotta dal suo letto naturale.
L'insieme di queste organizzazioni e i singoli militanti dovettero, chiaramente, scontrarsi non solo col fascismo e con i padroni ma anche con i metodi dello stalinismo: che includevano la delazione (con nomi e cognomi pubblicati sulla stampa di partito e dunque consegnati alla polizia fascista) e la calunnia. Tutti coloro che non si piegano alla linea di collaborazione di classe vengono accusati di "trotskismo" o di "bordighismo": essendo entrambi questi vocaboli usati come sinonimo di "spie del fascismo" ("Il sinistrismo, maschera della Gestapo" è il significativo titolo di un articolo di Pietro Secchia, del dicembre del '43). Bordiga, principale dirigente del Pcd'I nei suoi primi anni, dopo essere stato espulso nel 1930 veniva ancora definito da Togliatti su Lo Stato operaio "canaglia trotskista, protetto dalla polizia e dai fascisti" (9).
In realtà tanto la scissione napoletana come quella torinese, e altre organizzazioni minori che qui non abbiamo lo spazio di citare, pur avendo tra le proprie file in qualche caso alcuni militanti bordighisti o più o meno trotskisteggianti, il più delle volte si ispirano, a dire il vero, a Stalin! Vi è infatti una convinzione diffusa che la "svolta" di Togliatti avvenga in rottura con la linea indicata dall'Urss staliniana. La stessa Bandiera rossa (McdI), da molti indicata come trotskista, nei fatti aveva nel migliore dei casi posizioni confuse, come conferma che tra le indicazioni di lettura per i militanti ci fossero le opere di Stalin ma anche... la Storia della rivoluzione russa di Trotsky!
Dei trotskisti veri e propri diremo nel prossimo capitolo, per quanto riguarda Bordiga, pur sollecitato da vari militanti, rimane passivo, convinto che si debba attendere un cambio della situazione oggettiva... Lo stesso motivo che, anni prima, lo aveva spinto a criticare il percorso di costruzione della Quarta Internazionale. Per questo, pur seguendo a distanza e coltivando rapporti individuali, non si unisce alla Frazione di sinistra che si organizza dal '44 in Campania e poi nel meridione, che pure è chiaramente ispirata alle sue idee e che (basandosi su una equivoca lettura del "disfattismo" di Lenin davanti alla guerra) mantiene un atteggiamento di non partecipazione alla Resistenza. La Frazione di sinistra si fonderà nel '45 con il Partito comunista internazionalista, formazione bordighista attiva nel Nord Italia (alla riunione parteciperanno Bruno Maffi, Onorato Damen e vari altri dirigenti, tra cui lo stesso Bordiga).
 
7. I trotskisti privi di un partito
Non è questa la sede per ricostruire la storia del trotskismo italiano: compito che ci ripromettiamo di assolvere in uno dei prossimi numeri di questa rivista.
Il lettore interessato potrà utilmente rifarsi agli opuscoli di Giachetti e Casciola di cui diamo i riferimenti bibliografici nella apposita scheda in queste pagine, nonché al libro di Peregalli di cui pure diamo gli estremi.
Qui ci è sufficiente ricordare che i primi passi del trotskismo italiano sono mossi da Tresso e dagli altri espulsi dal Pci nel 1930 e dal raggruppamento cui diedero vita, la Nuova opposizione italiana. La Noi avrà vita breve (e vari scontri interni) e Tresso in particolare continuerà l'attività, durante il fascismo, nell'organizzazione trotskista francese, fino a quando sarà ucciso dagli stalinisti francesi nel '43 (su Tresso, di cui cade quest'anno il settantesimo anniversario della morte, rimandiamo ad altra parte di questo numero, dove pubblichiamo un suo articolo). I fili del trotskismo saranno ripresi paradossalmente... da alcuni militari americani e britannici facenti parte del contingente che invase l'Italia. Si trattava in realtà di dirigenti trotskisti che svolgevano il servizio militare e che furono preziosi per mettere in contatto il gruppo organizzato attorno a Nicola Di Bartolomeo (ex bordighista passato al trotskismo, dirigente di un lavoro entrista nel Partito socialista) e il gruppo diretto in Puglia da Romeo Mangano (proveniente dal Pcd'I) che si richiamava alla Quarta Internazionale pur non avendo alcun legame con essa. Alla fine del '45 i due gruppi si unificano nel Partito operaio comunista - bolscevico-leninista a cui aderirà anche Libero Villone e un settore proveniente dalla Frazione di sinistra.
Ma il Poc aveva col trotskismo un rapporto molto flebile e le posizioni maggioritarie erano bordighiste (rifiuto della tattica e dei deliberati del III e IV Congresso dell'Internazionale comunista; caratterizzazione dell'Urss come Stato capitalista; meccanicismo; ecc.). Per questo il II Congresso della Quarta Internazionale (aprile 1948) lo espelle dalle proprie file (Di Bartolomeo, il più vicino al trotskismo, era morto nel 1946), mentre al contempo riorganizza una nuova sezione attorno alla rivista Quarta internazionale animata da Libero Villone, Livio Maitan e da un gruppo provenienti dalle file socialiste (tra loro Giorgio Ruffolo, Gaetano Arfè, ecc.). La nuova organizzazione (1949) si chiamerà Gruppi comunisti rivoluzionari (e con questo nome proseguirà fino alla fine degli anni Settanta, diventando poi la Lega comunista rivoluzionaria).
Già questo accenno è sufficiente per comprendere come il trotskismo di fatto non esisteva in forma organizzata nel periodo che qui ci interessa, cioè dal 1943 al 1948.
Sarà questo (ma ci torniamo in conclusione) il motivo principale, a nostro avviso, del fallimento della rivoluzione italiana.
 
8. La restaurazione e la cacciata dal governo
Nel gennaio 1945 le formazioni partigiane vengono unificate e formalmente poste sotto il comando militare del governo regio e direttamente del generale Cadorna, che ebbe come vice Longo (Pci) e Parri (Giustizia e libertà). Fu questo atto a formalizzare, per così dire, l'impegno nella ricostruzione dello Stato borghese. Impegno diretto della sinistra confermato anche con la partecipazione ai governi borghesi che seguono il secondo governo Badoglio (cui già avevano dato sostegno): il governo Bonomi in carica dal giugno al dicembre '44, sostenuto da tutte le forze del Cln, e il successivo governo Bonomi, in carica fino al giugno del '45, retto da Dc, liberali e Pci (con Togliatti vice-premier).
Per consentire la ricostruzione degli organismi della democrazia borghese, parlamento, provincie e comuni, si liquidano i Cln (peraltro già trasformati da potenziali organismi di classe in strumenti della collaborazione di classe, come abbiamo visto sopra).
Soprattutto è il Pci a dover svolgere un ruolo di primo piano per disarmare la Resistenza. Nel maggio del '45 in ogni sede comunista è affisso un appello della direzione del Pci a riconsegnare le armi: per quanto furono riconsegnati solo i ferrivecchi mentre il resto fu nascosto nei depositi clandestini, nella ingenua convinzione che a un certo punto il partito avrebbe richiamato alla lotta.
Ma il contributo più importante alla ricostruzione del pieno potere borghese si dà in campo economico: dopo aver evitato o circoscritto gli episodi di esproprio delle fabbriche nelle zone che via via passavano sotto il controllo della Resistenza, si riconsegnano le fabbriche ai padroni. Di più: li si invita pressantemente a ritornare. Tutti i numeri dell'Unità, dalla Liberazione in poi, sono costellati da appelli agli operai perché aumentino la produzione (Stachanov, "eroe" russo del lavoro, è esaltato in ogni articolo) e ai padroni perché riassumano "il loro posto". Emilio Sereni (presidente del Cln lombardo, dirigente del Pci) in un'assemblea pubblica del settembre '45 riprende quello che sarà il leitmotiv del periodo: "Sarebbe troppo comodo per le classi dirigenti che hanno portato l'Italia alla catastrofe poter dire ai lavoratori: ora arrangiatevi da soli... I lavoratori non sono caduti nel tranello, hanno saputo esigere che i rappresentanti della proprietà prendessero la loro parte di responsabilità nel ricostruire." (10).
E le attese di una rivoluzione? Vengono spostate... in avanti; legate alla futura Costituzione. E' allora che inizia la retorica attorno a quel pezzo di carta, una retorica che continua ad ammaliare la sinistra riformista anche ai giorni nostri, nonostante i quasi settant'anni passati abbiano dimostrato che le rivoluzioni non si fanno con le leggi: tantomeno con le leggi scritte insieme alla borghesia (11).
L'altra faccia dell'impegno dei partiti di sinistra, Pci in testa, nel riconsegnare tutto il potere ai padroni, sta nel ruolo svolto per reprimere ogni atteggiamento e ogni lotta che possa ostacolare questo progetto. Noto è il ruolo di Togliatti che, ministro della Giustizia nel governo Parri e nel successivo governo De Gasperi, non solo concede l'amnistia ai fascisti - consapevole che una seria epurazione avrebbe inevitabilmente coinvolto anche la borghesia e rialimentato la lotta - ma acconsente alla ricostruzione dell'apparato repressivo borghese attingendo appunto al vecchio personale fascista. Ed è ancora il ministro Togliatti a invitare i magistrati a concludere rapidamente i processi riempiendo le galere (da cui erano usciti i fascisti) di operai partecipanti a scioperi e manifestazioni (12).
Il Pci ricopre incarichi di primo piano nei governi della ricostruzione: anche nei ministeri chiave dell'economia: ministero dell'Agricoltura nel secondo governo Bonomi; dell'Agricoltura e delle Finanze nel terzo governo Bonomi, nel governo Parri e nel primo governo De Gasperi; delle Finanze e dei Trasporti nel secondo governo De Gasperi.
Nonostante questo impegno solerte, nel 1947 il Pci è estromesso dal governo. Nondimeno, come recita una risoluzione del partito del maggio '47: "I comunisti continueranno a propugnare un programma di ricostruzione, che senza opprimere le forze sane produttive con eccessivi interventi dello Stato restituisca a tutti la fiducia nell'avvenire." (13).
Un avvenire capitalista, come sappiamo, con la promessa non esplicitata e le allusioni a un futuro "secondo tempo", quello del riscatto operaio.
 
9. Luglio '48: la più grande ondata operaia della storia italiana
E' appunto a quel "secondo tempo" che credettero i milioni di lavoratori che ripresero le piazze e le fabbriche dopo il 14 luglio del 1948. Quel giorno, uscendo dal parlamento, Togliatti fu colpito dalle pallottole di un esaltato.
Pochi minuti dopo che la notizia ha iniziato a fare il giro del Paese, divampa un'insurrezione. E' per così dire "spontanea": non nel senso letterale del termine (lotte integralmente "spontanee", senza l'intervento di settori di avanguardia o di singole avanguardie non esistono) ma nel senso che certamente non fu in nessun modo voluta dalle direzioni del Pci o del Psi o della Cgil. Fu tuttavia alimentata dai quadri di base e intermedi di quelle forze, da quei partigiani che avevano tenuto da parte le armi migliori.
Il movimento che ne nasce è il più grande dal "biennio rosso" del 1919-20: anzi, per certi verso lo supera in ampiezza. Sono centinaia i comuni dove le masse disarmano la polizia e i carabinieri e assumono il controllo. Le mitragliatrici vengono montate sui tetti delle fabbriche. Alla Fiat Valletta e i dirigenti sono sequestrati.
In tutte le grandi città sono erte le barricate difese dalle mitragliatrici. Anche Roma è totalmente paralizzata.
Ed è qui che governo borghese e padronato richiamano in servizio il Pci: che per parte sua già si era attivato per spegnere l'incendio. Tutto il gruppo dirigente centrale, da Togliatti (che si è raccomandato di "mantenere la calma" mentre lo portavano in ospedale) a Secchia (che negli anni seguenti una leggenda ingiustificata - accettata anche dall'estrema sinistra - presentò come il più incline al ritorno alle armi), si prodiga nelle piazze, improvvisa comizi per invitare... alla calma, a deporre le armi. Il capo della Cgil, il togliattiano Di Vittorio, va col cappello in mano da De Gasperi a invocare... il ritorno all'ordine. Ordine che il governo non è in grado di garantire e per il quale si aspetta appunto un aiuto dai dirigenti del Pci.
Lo sciopero generale non è stato proclamato da nessuno: la stessa Cgil vi dovrà aderire solo per riuscire a riprendere le redini della situazione.
Lo storico Mammarella (certo non di simpatie comuniste) ha così riassunto le cose: "sarebbe bastato un segnale da parte della direzione del Pci perché lo sciopero generale si trasformasse in insurrezione aperta. Ma il segnale non verrà (...)" (14).
Di Vittorio chiama Genova e Milano e Torino: ordina che si fermi tutto.
Negli anni seguenti la versione ufficiale del Pci è che si trattava di fermare un'avventura, di evitare un bagno di sangue e la repressione. In realtà il Pci non solo fermò l'insurrezione (che, a dire il vero, non avrebbe incontrato grandi ostacoli, dato che il movimento di massa aveva sollevato come un fuscello l'apparato repressivo borghese) ma evitò in ogni modo di mantenere vivo il conflitto, di strappare perlomeno (non intendendo fare la rivoluzione) qualche conquista in un momento certo favorevole.
No, il gruppo dirigente del Pci (ma vale lo stesso per il resto della sinistra) soffocò il conflitto operaio e salvò ancora una volta lo Stato borghese e la proprietà capitalistica, esattamente come aveva fatto il Psi nel settembre del 1920 (motivo che aveva indotto appunto i comunisti del Psi a fare la scissione di Livorno e a costruire il Pcd'I). A lotta rifluita, la repressione (e persino la vendetta) borghese non mancheranno comunque. Furono decine di migliaia i processi e le condanne. E il Pci le sostenne e anzi avviò all'interno del movimento operaio (e delle proprie stesse file) la caccia all'"estremista", ai "trotskisti", cioè a tutti coloro che non comprendevano perché la lotta dovesse concludersi ancora una volta con la vittoria dell'avversario, nonostante l'indubbia superiorità di forza dimostrata dalle masse, dalla classe operaia.
 
10. Perché non è finita a Piazzale Loreto
Arrivati in conclusione di questa nostra analisi, conviene ripassare in rassegna gli argomenti che da decenni sono stati forniti dal Pci e da tutta la storiografia riformista per cancellare dai libri (dopo averlo fatto nella realtà) la rivoluzione che era possibile nell'Italia del periodo che va dal '43 al '48:
1) il movimento partigiano avrebbe avuto scarsa consistenza e, in ogni caso, la componente comunista non avrebbe avuto un peso assoluto;
2) la forza dell'apparato statale borghese e del sistema sociale ed economico capitalistico sarebbe stata insormontabile;
3) La presenza delle truppe anglo-americane prima, la possibilità di un loro intervento negli anni successivi, avrebbe impedito ogni mossa.
Nel solo leggere questi argomenti, alla luce di quanto abbiamo scritto nelle pagine precedenti, si capisce come siano più traballanti di un tavolino tarlato.
L'argomento numero uno è demolito, talvolta involontariamente, da tutta la storiografia, inclusa quella di orientamento anche molto ostile alla rivoluzione. E' noto come fu appunto il movimento partigiano a liberare l'Italia dagli occupanti e dai fascisti, mentre le truppe dei "liberatori" (l'imperialismo anglo-americano) arrivarono il più delle volte a cose fatte. Quanto al peso maggioritario non solo dei comunisti ma anche più in generale dei sostenitori, in vari modi organizzati, di una prospettiva comunista, abbiamo già detto.
L'argomento numero due non regge alla prova di qualsiasi esame serio dei fatti storici. L'apparato statale borghese era crollato in modo evidente nel '43 (l'8 settembre ne fu solo una eco). Non esisteva più uno Stato unitario, e tanto al Sud (regno) come al Centro-Nord (repubblica mussoliniana) le masse dimostrarono la capacità di spezzare con la loro forza i due apparati ricostruiti dopo l'armistizio. Della Resistenza al Nord è più noto; ma anche al Sud le masse proletarie e i contadini poveri furono protagonisti di grandiose lotte contro il padronato e le truppe regie (e contro le bande della mafia che collaboravano con i "liberatori" anglo-americani in funzione anti-comunista). Si pensi ai tanti episodi avvenuti in Sicilia: all'insurrezione che nel gennaio del 1945 parte da Ragusa e si estende a Comiso, Agrigento, ecc., contro la chiamata alla leva da parte del re. L'Unità (9 gennaio 1945) definì quella rivolta come il prodotto di "rigurgiti della reazione fascista": ma gli storici più seri hanno dimostrato che lì di fascisti non vi è traccia, al contrario tra gli insorti si trovano vari militanti e quadri intermedi del Pci. O ancora, si guardi alla vicenda di Piana degli Albanesi, dove il 31 dicembre '44 fu issata la bandiera rossa sul Comune e proclamata una "repubblica popolare" che riuscirono a soffocare solo due mesi dopo carabinieri e alpini scagliati a migliaia contro le masse. E la lista potrebbe proseguire a lungo.
Quella indubbia capacità rivoluzionaria delle masse ebbe inoltre la sua più completa verifica ancora nel luglio 1948, come abbiamo visto, dove ancora una volta fu soltanto l'intervento del Pci a salvare la borghesia e il suo Stato. Lo stesso può dirsi della forza economica della borghesia: le fabbriche erano in mano agli operai (così come nel settembre 1920) e fu lo stalinismo (cioè Togliatti e il gruppo dirigente del Pci) a restituirle, talvolta cogliendo di sorpresa la borghesia che si aspettava ben altro trattamento.
Quanto all'argomento degli anglo-americani, mostrava già la sua debolezza quando fu usato per la prima volta a metà degli anni Quaranta. E' del tutto evidente che se l'intero movimento della Resistenza non fosse stato, giorno per giorno, fin dal suo sorgere, deviato e tarpato, nessuno sarebbe stato in grado di fermarlo né gli anglo-americani sarebbero stati capaci di fermare un processo rivoluzionario che avveniva simultaneamente in vari Paesi europei (ad es. in Francia e in Grecia, nello stesso periodo, così come in Jugoslavia: dove furono i rapporti di forza sul campo a mutare le scelte fatte a tavolino a Yalta) e che solo lo stalinismo, attraverso il Comintern-Cominform, fu in grado di disarmare.
La realtà è allora molto diversa da quella che leggiamo ancora oggi nei libri di storia. In Italia era possibile in quel periodo non solo sconfiggere il fascismo (fine che non richiedeva nessuna alleanza con la borghesia o suoi settori) ma anche realizzare una rivoluzione socialista, facendo i conti col sistema socio-economico che generò il fascismo, il capitalismo. Di più, in qualche modo era questo il corso che assumevano gli eventi e questa era la forza enorme intrinseca alla Resistenza.
Quel corso fu volutamente deviato con un gigantesco sforzo attivo da parte dello stalinismo che operò coscientemente per impedire (o meglio per rovesciare) la radicalizzazione classista della Resistenza.
E questo avvenne perché mancavano un partito e un'internazionale rivoluzionaria con influenza di massa in grado di contendere l'egemonia agli stalinisti; perché non c'era un partito di tipo bolscevico e l'internazionale rivoluzionaria, la Quarta Internazionale, nata pochi anni prima (1938) rimase minoritaria grazie ai colpi incrociati che subiva per mano degli Stati borghesi (democratico parlamentari o fascisti) e degli stalinisti.
Ecco, in definitiva, perché solo la costruzione del partito rivoluzionario che mancava nel 1943-1948 e che manca ancora oggi potrà riscrivere la storia (e non solo nei libri) e potrà riscattare il sacrificio di tanti giovani operai, di tanti partigiani. Facendo quella rivoluzione che fu loro impedita.
 

Note
(1) Oltre alle Brigate Garibaldi il Pci dà vita nel novembre '43 ai Gap (Gruppi di azione patriottica) che agiscono nelle città; e poi alle Sap (Squadre di azione patriottica) composte da lavoratori che rimangono al lavoro e fanno azioni di sabotaggio e collaterali.
(2) E. Aga Rossi e V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin, Il Mulino, 1997; S. Pons - F. Gori, Dagli archivi di Mosca. L'Urss, il Cominform e il Pci, 1943-1951, Carocci, 1998.
(3) Citato da Pons-Gori, op.cit., p. 48.
(4) Ivi, p. 35.
(5) Interessante notare che fu Togliatti in persona, di ritorno da Mosca, a portare le direttive segrete di Dimitrov per il Pcf: unità nazionale, disarmo della Resistenza, ecc.
(6) V. l'Unità del 2 aprile 1944: l'archivio dell'Unità (molto utile) è consultabile anche dal sito http://archivio.unita.it/.
Si tratta di quanto Togliatti aveva già detto in vari interventi e in particolare di quanto dirà, più o meno con le stesse parole, nel discorso ai quadri del Pci napoletano l'11 aprile (v. P. Togliatti, Per la salvezza del nostro Paese, Einaudi, 1946).
(7) Direttiva di Ercoli [il nome di battaglia di Togliatti] del 6 giugno 1944, in Archivio Pci presso la Fondazione Istituto Gramsci, Roma, citato da Aga Rossi e Zaslavsky, op. cit.
(8) Su questo tema si veda l'articolo di F. Stefanoni, "Partito nuovo' e 'democrazia progressiva': due strumenti del compromesso di classe", reperibile sul sito www.alternativacomunista.org nella sezione "teoria e formazione".
(9) Citato da A. Peregalli, L'altra Resistenza. Il Pci e le opposizioni di sinistra, 1943-1945, Graphos, 1991, p. 88.
(10) Citato da G. Galli, Storia del Pci, ed. Schwarz, 1958, p. 236.
(11) Per un nostro giudizio più argomentato circa la Costituzione, rimandiamo al nostro "Popolo viola o popolo rosso? Perché i comunisti non difendono la Costituzione e si battono per un'altra democrazia" reperibile all'indirizzo web http://www.alternativacomunista.it/content/view/1435/47/
(12) In questo quadro, il Pci al contempo reprime gli atti di ribellione di bande partigiane che nel periodo dalla Liberazione al '48 periodicamente sono tentate dal riprendere le armi e ritornare in montagna; e al contempo tollera (e in parte usa come valvola di sfogo) azioni contro singoli fascisti: come è il caso delle esecuzioni di fascisti eseguite dalla Volante Rossa di Milano, attiva dall'estate '45, su cui si rimanda a C. Bermani, La Volante Rossa, Ed. Colibrì, 2009.
(13) Vedi La politica dei comunisti dal V al VI Congresso, risoluzioni e documenti raccolti a cura della segreteria del Pci, 1948.
(14) G. Mammarella, L'Italia dopo il fascismo, 1943-'68, Il Mulino, 1970, p. 204.
 

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Suggerimenti di lettura
 
Al lettore che volesse approfondire i temi trattati in questo articolo consigliamo in primo luogo di leggere i principali articoli scritti da Lev Trotsky sul fascismo e sui fronti popolari: li si trova nelle due antologie curate da Livio Maitan: Scritti 1929-1936 (Mondadori, 1968) e I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali (Einaudi, 1970). Sullo stesso tema, di grande utilità sono i libri di Daniel Guérin, Fascismo e gran capitale, (Massari editore, 1994) e di Leonardo Rapone, Trotsky e il fascismo (Laterza, 1978).
Sulla Resistenza, di là dalle opere di impianto stalinista (la storia del Pci di Spriano, i libri di Ragionieri, Procacci, ecc.; o le memorie e biografie di vari dirigenti politici e sindacali togliattiani), uno dei libri più interessanti (prescindendo dai giudizi dell'autore, ex azionista, su posizioni socialiste borghesi ma appunto indipendenti dall'influenza stalinista) è la Storia dell'Italia partigiana di Giorgio Bocca (Feltrinelli, 2012 è l'edizione più recente); del medesimo autore, sempre di taglio giornalistico ma con spunti interessanti è anche la biografia Togliatti (Laterza, 1973).
Sul periodo storico trattato suggeriamo la lettura di questi titoli: Giorgio Galli, La sinistra italiana nel dopoguerra (Il Mulino, 1958, edizione ampliata 1978 per Il Saggiatore); sempre di Galli la Storia del Pci (Schwarz, 1958, la ristampa più recente è Pantarei, 2011) e la serie di volumi di Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione (Savelli, 1976): l'autore, all'epoca maoista ricostruisce l'intera storia d'Italia (dal Risorgimento agli anni Sessanta) dal punto di vista delle classi subalterne e, di là da singoli giudizi, fornisce un materiale difficilmente reperibile altrove sulle principali lotte operaie e delle masse popolari.
Per una lettura anti-stalinista delle vicende qui trattate rimandiamo ad Antonio Moscato, Sinistra e potere. L'esperienza italiana, 1944-1981 (Sapere 2000, 1983): ai saggi di Moscato abbiamo fatto riferimento in vari casi per questo testo. Per altri testi utili dell'autore (storico e dirigente per decenni del Segretariato Unificato e di quanto resta oggi del gruppo italiano) si veda il suo sito
http://antoniomoscato.altervista.org/
Tra i rarissimi libri dedicati alle opposizioni nella Resistenza (cui abbiamo fatto riferimento nel capitolo 6 del presente saggio) risultano indispensabili alcuni libri pubblicati da piccole case editrici: il testo più completo è sicuramente quello (di taglio bordighista) di Arturo Peregalli, L'altra Resistenza. Il Pci e le opposizioni di sinistra, 1943-1945 (Graphos, 1991); poi Silverio Corvisieri, Bandiera Rossa nella Resistenza romana (Samonà e Savelli, 1968) e Maurizio Lampronti, L'altra Resistenza, l'altra opposizione. Comunisti dissidenti dal 1943 al 1951 (Antonio Lalli editore, 1984).
Sul trotskismo italiano (di cui abbiamo parlato nel capitolo 7) rinviamo alla lettura di questi testi: Aa.Vv., All'opposizione nel Pci con Trotsky e Gramsci (1977, ristampato da Massari Editore, 1994) e Lev Trotsky, Scritti sull'Italia (Massari editore, 1990). E ancora: Paolo Casciola, Il trotskismo e la rivoluzione in Italia (1943-1944), nei Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso; e, dello stesso autore, medesime edizioni, anche: Appunti di storia del trotskismo italiano (1930-1945). Sugli atti di nascita del trotskismo italiano è prezioso Diego Giachetti, Alle origini dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari 1947-1950. Una pagina di storia del trotskismo italiano (Quaderni del Centro Studi Pietro Tresso, novembre 1988).
Su Pietro Tresso, ucciso dagli stalinisti, si può leggere Paolo Casciola, Guido Sermasi, Vita di Blasco. Pietro Tresso dirigente del movimento operaio internazionale (Odeonlibri-Ismos, 1985).
 
(questo saggio è stato pubblicato sul n. 4 di Trotskismo oggi, settembre 2013, rivista teorica edita dal Pdac)

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