Rinnovi contrattuali: la nostra analisi e le nostre proposte

Dossier a cura del Dipartimento sindacale del Pdac
Ccnl metalmeccanici, tutto come prima!
di Massimiliano Dancelli*
Lo scorso 22 novembre Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil hanno sottoscritto con Federmeccanica l’ipotesi di accordo per il rinnovo del Contratto collettivo nazionale di lavoro del settore metalmeccanico nella grande industria. Ora la palla passa ai lavoratori e alle lavoratrici che dovranno «vidimare» la piattaforma nelle assemblee (un passaggio solo formale e farsesco che restituisce ogni volta maggioranze bulgare a favore dell’ipotesi).
Dopo oltre un anno di trattativa tra sindacati confederali e associazione padronale, si è arrivati, secondo noi, ad un accordo che sostanzialmente a livello normativo modifica poco o nulla rispetto al contratto appena scaduto. Anche la parte economica è ampiamente insufficiente e non si avvicina nemmeno alla richiesta iniziale presentata dal sindacato. Ma vediamo nel dettaglio le parti principali dell’accordo che verrà presentato agli operai.
I punti dell’accordo
Come dicevamo non sono state inserite grosse novità rispetto al contratto precedente.
Sono state poste alcune migliorie rispetto al trattamento della malattia per i malati oncologici e per i disabili. Ai malati oncologici - peraltro senza considerare che la maggior parte delle patologie è causata dalle condizioni insalubri di lavoro nelle fabbriche – verranno riconosciuti 10 giorni di permesso retribuito e due anni di aspettativa non pagata. Per i disabili aumentano i giorni di comporto sull’assenza per malattia per la conservazione del posto di lavoro.
Alcune piccole modifiche normative solo di facciata sono poste per il diritto alla formazione, per la prevenzione delle molestie alle donne sul luogo di lavoro, sugli appalti, con la creazione di osservatori sugli andamenti industriali e maggiore controllo delle rsu. Misure che, capite bene, non incideranno minimamente sull’attuale situazione nelle fabbriche, tanto più che questi osservatori saranno costituiti anche dai padroni.
Viene concesso ai lavoratori un migliore utilizzo dei Par (permessi annui retribuiti), ma in cambio il padrone guadagna 8 ore di straordinarie comandate e di gestione della flessibilità di orario: da 120 a 128.
A livello economico, di cui parleremo meglio dopo, sono stati ottenuti 205,32 euro (lordi) complessivi all’ex 5° livello, di cui i tre quarti legati all’indice Ipca Nei, ovvero l’indice europeo per il calcolo dell’inflazione dei prezzi depurato del costo dell’energia, il restante legato all’indice di trattamento economico minimo stabilito nel «patto per la fabbrica», l’infame accordo stipulato il 9 marzo 2018 tra Cgil-Cisl-Uil e Confindustria sulle relazioni industriali.
Viene potenziato il welfare aziendale con l’aumento dei flexible benefit a 250 euro.
Aumenti salariali insufficienti
Come dicevamo, i padroni hanno «concesso» 205 euro di aumento, cifra abbastanza lontana dai 280 euro richiesti nella piattaforma rivendicativa fatta votare ai lavoratori più di un anno fa.
Si capisce bene che, se i 280 erano già ampiamente insufficienti per coprire l’aumento del costo della vita causato dall’inflazione reale (non quella fantasiosa calcolata con l’indice Ipca), i 205 ne sono ancora più lontani. Inoltre verranno erogati in quattro «comode» tranche, cioè l’aumento salariale arriverà a regime tra quattro anni alla scadenza del contratto. Quindi i lavoratori, oltre a ricevere un aumento che non permette di recuperare tutto quanto perso negli ultimi anni, si ritrovano anche a doverli percepire a rate.
Ma in realtà non si dovrebbero preoccupare, perché come nel contratto precedente, è stata inserita la clausola di salvaguardia. Tale clausola permette a giugno di ogni anno di confrontare il dato Ipca con la previsione fatta in sede di firma: se il dato sull’inflazione risulta più alto, viene adeguato il valore della tranche da versare al lavoratore per l’anno in questione. Peccato che l’Indice Ipca è depurato dal costo dell’energia importata, che in Italia è circa l’80% e acquistata a prezzi altissimi. Quindi l’aumento non sarà in grado di coprire la reale inflazione che invece grava sulle tasche di lavoratori e lavoratrici che i prodotti li comprano a prezzo pieno e le bollette le devono pagare per intero (al netto di qualche saltuario sostegno proposto dal governo di turno).
Vero che uno è meglio di zero, ma è anche meno di due.
Alcune valutazioni generali
Al netto degli insufficienti aumenti salariali, possiamo dire che nel complesso il nuovo contratto non propone sostanzialmente alcuna variazione rispetto al precedente. Non viene diminuito l’orario di lavoro al di là dell’inserimento della promessa di alcune sperimentazioni isolate. Nulla cambia a livello di sicurezza sul lavoro, nemmeno in relazione alla questione degli appalti e della parificazione dei lavoratori e delle lavoratrici delle ditte appaltatrici con quelli delle appaltanti. Pochissimo è stato fatto anche per contrastare la precarietà.
Viene rafforzato il welfare aziendale, ricalcando la direzione di un modello contrattuale che mira alla distruzione dello stato sociale e della sanità pubblici a favore del privato.
Si riprendono di fatto anche per questo contratto le linee guida messe per iscritto nel «patto per la fabbrica», l’accordo di cui parlavamo prima.
Di fatto la tendenza è quella dell’indebolimento del contratto collettivo nazionale a favore di una contrattazione di secondo livello, anche per quanto riguarda la difesa del salario che viene attuata però in una minoranza di aziende.
Possiamo quindi dire che non c’è nulla di nuovo nemmeno confrontando l’accordo dei metalmeccanici con quello di altre categorie, nonostante i metalmeccanici abbiano organizzato numerosi scioperi. La tendenza è quella degli ultimi anni: tenere bassi i salari, libertà ai padroni di licenziare e assumere con contratti precari o subappaltare, smantellamento del welfare e della sanità pubblici.
Crediamo che Federmeccanica abbia preso un po' per sfinimento le organizzazioni firmatarie, con trattative estenuanti e continuamente interrotte. Un tira e molla che ha contribuito a sfiancare i lavoratori indebolendo di parecchio la loro lotta, dando mano libera ai padroni per non cedere di un passo su salario e riduzione di orario di lavoro.
La lotta è stata condotta senza reale combattività da Fim, Fiom e Uilm che, è vero, hanno convocato 40 ore di sciopero durante la trattativa, ma l’hanno fatto senza dare una vera continuità alla lotta e dividendo spesso i lavoratori e le lavoratrici su più piazze. Non sono state messe in campo azioni incisive come l’occupazione di fabbriche o scioperi prolungati e questo non ha permesso di rovesciare gli attuali rapporti di forza che, sul terreno dei rinnovi contrattuali, sono a vantaggio dei padroni ormai da troppi anni.
Ora la palla passa alle operaie e agli operai metalmeccanici che dovranno votare questa ipotesi di accordo. Noi facciamo appello affinché la respingano e chiedano a gran voce di tornare alla lotta. Le condizioni per una lotta forte e unitaria ci sono tutte, lo abbiamo visto bene con gli scioperi di fine settembre e inizio ottobre a favore della Resistenza Palestinese. Torniamo alla lotta per conquistare non solo un vero contratto nazionale degno di questo nome, non solo un salario e condizioni di vita migliori, ma anche per distruggere questo sistema capitalista che offre solo fame, guerre e sfruttamento!
*lavoratore Fiom-Cgil, militante Pdac
Ccnl Gomma Plastica: se il buongiorno si vede dalla piattaforma…
di Cristiano Biorci*
Come un libro già letto, come un film già visto, siamo di nuovo qui a parlare del rinnovo di un Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (che da qui chiameremo Ccnl), in questo caso la categoria in questione è quella della Gomma e Plastica. Già visto, dicevamo: le premesse fatte nella piattaforma presentata da Filctem-Cgil, Femca-Cisl e Uiltec-Uil sono nell'ottica degli scarsi contenuti di questo rinnovo (come già accaduto per il chimico farmaceutico di qualche mese fa per o il più recente della scuola pubblica), come si suol dire nel linguaggio sindacale un contratto «a perdere». Ancora una volta le direzioni sindacali (Cgil, Cisl e Uil), che si arrogano, anche con regole fatte a loro piacimento, il diritto di essere gli unici a sedere al tavolo della contrattazione, alla resa dei conti dimostrano l'incapacità (ma probabilmente anche la mancanza di volontà) di portare nelle tasche dei lavoratori un risultato adeguato, soprattutto nell'aspetto economico. Andiamo a vedere più dettagliatamente i punti di questo rinnovo.
L'importanza del salario
Un particolare che potrebbe sfuggire andando a leggere la piattaforma per il rinnovo del Ccnl avanzata da Cgil, Cisl e Uil, particolare che invece riteniamo molto importante, è che la parte economica/salariale viene introdotta solamente nella parte finale. Al contrario, pensiamo che questo sia un aspetto fondamentale di ogni contratto di lavoro, di qualsiasi categoria. Quindi in questo articolo volutamente lo mettiamo al primo posto.
È di 235 euro (lordi) la richiesta fatta dai sindacati, anche qui spalmati come sempre in più tranche e prendendo come riferimento il livello F, che nella maggior parte dei casi non è il livello di inquadramento dei comuni operai. Il calcolo si riferisce, come avviene da anni, all'indice Ipca: questo è un indice assolutamente inadeguato perché non prevede la crescita dei salari, escludendo i costi energetici che, specialmente in questo periodo di guerre imperialiste, fanno lievitare il costo della vita. I dati ci dicono che negli ultimi 35 anni il potere d’acquisto dei salari in Italia è calato del 3%, con un crollo vertiginoso negli ultimissimi anni dovuto alla crisi energetica.
Le finte conquiste
Constatato che gli aumenti salariali non sono una priorità per le direzioni di Cgil, Cisl e Uil, la domanda è: su cosa puntano allora costoro? La risposta è anche in questo caso un dejà vu: welfare, enti bilaterali e altre regole e modifiche mal definite, soggette a interpretazione, che quindi non vanno a salvaguardare gli interessi dei lavoratori.
Il welfare aziendale è a tutti gli effetti, anche a detta di esperti in economia, uno specchietto per le allodole: col welfare aziendale i padroni si tengono in tasca i tributi fiscali e i contributi previdenziali, soldi che potrebbero e dovrebbero essere utilizzati per la sanità, la scuola, le pensioni e tutti quei settori sempre più allo sfacelo.
Che dir - o meglio anche in questo caso ribadire - sugli enti bilaterali? Organismi coperti da una coltre di mistero e ambiguità, di informazioni alle quali nessuno è tenuto ad accedere. Le uniche cose certe sono che vengono gestiti e finanziati sulle spalle dei lavoratori, in modo bilaterale (da qui il nome) da padroni e sindacati firmatari, anche con entrate per questi ultimi. Lecito e logico, quindi, pensare ad un conflitto di interessi.
Altri punti ai quali si dedica grande attenzione, sempre per interessi materiali dei sindacati e non dei lavoratori, sono i fondi pensione e sanità. Anche in questi casi, senza dilungarsi, basta dire che la gestione di questi è ambigua, poco chiara e poco sicura (investimenti), ma soprattutto anche in questo caso si va a indebolire il sociale.
Una riconferma del passo sbagliato con il quale sì è andati avanti negli ultimi decenni, un passo che ha portato i lavoratori italiani a un sempre maggiore impoverimento e che ha bloccato (anzi: indebolito) il potere d’acquisto dei loro salari dal 1990 ad oggi. Un passo che sta portando alla deindustrializzazione nel nostro Paese, con sempre maggiore disoccupazione e condizioni di lavoro in continuo peggioramento. Il modello concertativo adottato dalle direzioni dei sindacati già citati ha fatto venire alla luce in maniera impietosa il proprio fallimento e quello degli stessi apparati sindacali.
Il problema e le soluzioni
Il capitalismo è basato sul profitto, ovvero lo sfruttamento delle classi più deboli da parte dei capitalisti. Questo porta inevitabilmente a un ulteriore arricchimento di chi è già ricco (una sparuta minoranza) a discapito delle classi più disagiate che subiranno invece l'effetto esattamente contrario. Una società impregnata dal capitalismo, dove i governi borghesi e nemici dei lavoratori e delle classi più deboli continuano a massacrare le masse popolari con leggi che propongono austerità e sacrifici. Il riformismo non offrirà nessuna via d’uscita: i partiti apparentemente dalla parte dei lavoratori e le direzioni sindacali da loro dirette, anziché aprire gli occhi alle masse e organizzare la mobilitazione prolungata, cercano invece soluzioni che guardano al meno peggio o ad interessi di apparato. Questo per la mancanza di capacità e coraggio da parte delle direzioni e dei vertici sindacali, con l'obiettivo di mantenere i propri privilegi, evitando lo scontro.
Siano i lavoratori a decidere: proprio da questo punto può e deve nascere il cambio di passo di cui parlavamo prima. È necessario costruire un modello di sindacato conflittuale e di classe, indipendente dai padroni e dai governi, nel quale i lavoratori, sulla base della democrazia operaia, siano uniti nella lotta per i diritti propri e di tutti i settori più deboli: disoccupati, pensionati, studenti, donne, ecc. Tutti uniti contro gli unici nemici: il capitalismo e il profitto. Sono questi ultimi che creano sfruttamento, povertà, disuguaglianze: tutto ciò deve essere combattuto, così come devono essere combattute le burocrazie e i vertici dei sindacati, che invece cercano di insegnare ad abituarsi e adattarsi al sistema capitalista, badando principalmente ai propri tornaconti. Per costruire un sindacato di questo tipo, è fondamentale la costruzione e l'esistenza di un partito rivoluzionario, che orienti il sindacato stesso, portando in tutte le lotte la prospettiva di un mondo diverso. Bisogna sconfiggere questo modello di società per costruirne una in cui tutte le persone siano uguali: una società socialista.
Cosa serve, cosa bisogna chiedere
È invece necessario e indispensabile un cambio di passo, che porti a:
- aumenti salariali adeguati al costo della vita, almeno 500 euro netti per recuperare 35 anni di mancata crescita del potere d’acquisto;
- abolire il precariato e il sistema degli appalti e subappalti: non sono altro che puro sfruttamento, senza garanzie di futuro lavorativo e svilenti la professionalità dei lavoratori;
- democrazia sindacale: stessi diritti, mezzi e regole per tutti i sindacati e libertà di scelta per i lavoratori, rilanciando comitati di fabbrica e coordinamenti, restituendo ai lavoratori il ruolo centrale di protagonisti, affinché siano loro a decidere;
- riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario, un vecchio cavallo di battaglia, che aumenterebbe l’occupazione e migliorerebbe la conciliazione dei tempi vita/lavoro;
- nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori a partire dalle aziende che delocalizzano o chiudono.
*Segretario provinciale Allca-Cub di Alessandria, militante del Pdac























